Il che rende i “sacrifici” richiesti per tenerlo in vita ancora più intollerabili.
Uscirne non sarà una passeggiata, restarvi dentro significa – ogni giorno diventa più chiaro – rischare di restare sepolti dal crollo improvviso. Perché una moneta è poso più si un simbolo, un “segno di valore”; e presuppone che vi sia “fiducia” in chi l’accetta come controvalore di una merce, un servizio, un’altra moneta. Finché questa fiducia sta in piedi la moneta circola e svolge una funzione sociale/economica. Nel momento in cui viene meno scompare del tutto. Non passano né anni né mesi. Semplicemente nessuno accetta più dei pezzi di carta di cui nessuno può più garantire che domani vangano ancora qualcosa.
In un articolo de IlSole24Ore (http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-04-09/roma-fuori-euro-worst-151342.shtml?uuid=AbaL2blH&fromSearch) abbiamo trovato alcuni calcoli piuttosto chiari.
“L’uscita dall’euro costerebbe a ogni italiano tra i 9.500 e gli 11.500 euro, secondo uno studio della banca svizzera Ubs. Crollo del pil, disoccupazione di massa, collasso del commercio estero e panico finanziario: per gli analisti di Ubs, con il ritorno alla Lira, non è da escludere il pericolo di una dittatura o di una guerra civile. La fondazione tedesca Bertelsmann Stiftung ha definito l’Italexit come il “worst case scenario” anche per i partner europei: di qui al 2020 la Germania ci rimetterebbe 1,7 trilioni di euro, con un costo pro-capite di 21.000 euro, superiore alla stangata subita dagli italiani”.
A noi sembra dunque evidente che l’euro, fin qui, è servito soprattutto alle economie “forti” – come quella tedesca, ma non solo – per diventare ancora più forti. Ed è perfettamente logico. Se con la stessa moneta vengono misurate (“prezzate”) merci identiche contenenti una quantità di valore molto differente, è ovvio che sarà favorito chi ha speso meno per produrre. Facciamo un esempio “per assurdo”, come si faceva a scuola (qualche decennio fa). Un chilo di mele tedesche, sul mercato unico e con la stessa moneta, viene venduto a un euro; esattamente come il chilo di mele greche o spagnole. Ma quelle tedesche sono state raccolte e trasportate con sistemi meccanici veloci, mentre quelle greche o spagnole (stiamo facendo un ragionamento astratto, per chiarire un concetto chimato “composizione organica del capitale”, non ci venite a dire che anche in quei paesi si usano macchine! lo sappiamo…) vengono raccolte a mano, trasportate per chilometri su carrette e poi su vecchi camion lungo strade dissestate, ecco che quando arrivano finalmente sui banchi del mercato allo stesso prezzo si acquistano mele parecchio differenti. Quelle tedesche permettono un ampio profitto a chi le ha prodotte, le altre “mediterranee” si vendono in perdita o senza guadagno.
Trasportate il ragionamento in qualsiasi altro campo produttivo, e avrete un quadro attendibile di cosa voglia dire “via alta della competitività” (maggiori investimenti, migliori tecnologie, razionalizzazione dei processi e dei tempi di lavorazione, ecc). Mentre in Italia (e Spagna, Grecia, ecc) Confindustria preme ottusamente da decenni – ottenendo ciò che vuole! – per implementare la “via bassa” (minori salari, orario di lavoro più lungo, senza investimenti o quasi). Alla fine ci rimettono anche loro, per puro e stupidissimo egoismo dalla vista corta. Ma è inutile chiedere ai capitalisti un orizzonte temporale più lungo della prossima relazione trimestrale…
L’incapacità di comprendere la complessità dei processi si manifesta però in molti modi. Anche opposti. Si può insomma imputare la crisi del debito (pubblico e/o privato) si paesi, banche, aree monetarie, ai comportamenti “da cicala” dei paesi deboli oppure a quelli “egoisti” dei paesi più solidi. E non capire dunque che il vero problema è il sistema che li tiene insieme e rende obbligatorio – come in una rete di vasi comunicanti – che là dove c’è del “liquido” in più si verifichi una “cessione” verso dove c’è un livello più basso. L’euro e il mercato comune questo hanno fatto per decenni. Ora la crisi dei Piigs richiede che questo processo di trasferimento dai poveri ai ricchi si arresti. E naturalmente i ricchi non ne vogliono sapere.
Quest’altro articolo, tratto da La Stampa di oggi, è di evidenza solare:
Der Spiegel non molla “Parlate di chi si toglie la vita ma siete più ricchi di noi”
15/04/2013 Tonia Mastrobuoni
Basta piangere, basta lamentarsi della povertà crescente, dei suicidi «che c’erano anche prima della crisi», dei populismi in aumento esponenziale. I Paesi del Sud Europa, dice l’infallibile Bce, nascondono le loro immense ricchezze al Nord. Di conseguenza è giusto che si salvino da soli. È la sconcertante conclusione dell’inchiesta che ha ispirato la copertina di questa settimana dell’autorevole Spiegel.
Che esce, guarda caso, il giorno dopo il congresso fondativo del primo partito dichiaratamente anti-euro mai nato in Germania, “Alternative für Deutschland”.
In realtà, se è vero che i numeri non mentono, è altrettanto vero che bisogna saperli leggere. Ed è evidente che in Germania le statistiche pubblicate di recente dalla Bce sulla ricchezza delle famiglie europee hanno creato un pericoloso corto circuito nella testa di molti. Aggravato dal concomitante salvataggio di Cipro che ha segnato un cambio di paradigma nelle politiche della Ue, introducendo il precedente devastante dell’«ognun per sé», tanto caro proprio a Berlino.
Il risultato ha ispirato il titolo dello Spiegel «Patente di povertà. Come i Paesi europei in crisi nascondono i loro patrimoni». Morale: l’autosalvataggio di Cipro deve essere il modello futuro per l’Europa, eccome. E fa niente se tutti si affannano, da Mario Draghi in giù, a spergiurare che Cipro è un caso unico e irripetibile, che nessun risparmiatore sarà toccato da salvataggi futuri. I tedeschi ora pensano, anzi, si auspicano il contrario, rinvigoriti anche dalla notizia che i ciprioti sono molto più ricchi di loro.
Il ragionamento è lungo e articolato ma è sufficiente citare un paio di passaggi sull’Italia per capirne il senso e rimanere basiti. «Ogni giorno in Italia ci sono molti suicidi ma c’erano già prima della crisi». Un attenuante, certo. La ricchezza mediana delle famiglie italiane, poi, essendo di 173.500 euro, «tre volte quella dei tedeschi», ispira una conseguenza ovvia. Avendo l’Italia un debito pubblico del 130% contro quello tedesco che è all’80%, c’è una sola soluzione perché esca dall’impasse, perché si liberi finalmente di questo tallone d’Achille dei suoi conti pubblici. Eccola qua: «sarebbe più sensato che i Paesi in crisi riducano i loro debiti con le proprie forze: aggredendo maggiormente la ricchezza dei suoi cittadini».
Il settimanale è così grezzo da dimenticarsi che gli stipendi degli italiani sono molto più bassi di quelli tedeschi, o che per pagare le enormi quantità di tasse che gravano su stipendi e sulla casa ci vuole liquidità. Così come dimentica di citare gli abissi che ci sono tra i servizi di cui beneficiano i tedeschi rispetto agli italiani, in cambio delle tasse.
L’unico dato che lo Spiegel non nasconde è quello sulla povertà: da noi la quota di poveri è al 16,5% contro il 13,4% dei tedeschi. Così come ammette che i tedeschi hanno una tradizione da cicale: preferiscono vivere in affitto e spendere in viaggi piuttosto che risparmiare. Ma quando arriverà il momento di salvarci, se mai accadrà, è prevedibile che la parola d’ordine sarà una sola: salvatevi da soli. Come Cipro.
E infatti l’Eurogruppo della scorsa settimana ha già raccolto l’indicazione…
Ultima notazione. Come vedete, quando si parla di “prelievo forzoso” sui conti correnti i giornalisti dei media mainstream (quelli delle grandi testate, con i contratti standard, i benefit, ecc) diventano improvvisamente molto critici rispetto alle politiche di salvataggio ora in azione nell’eurozona. Mentre quando si tratta di tagliare pensioni, aumentare la precarietà, incrementare la “flessibilità”, fare “il patto per l’Italia” sono completamente allineati.
Viene il legittimo dubbio che i loro conti correnti siano deciamente al di sopra dei 100.000 euro garantiti dalle normative europee. E che quimdi, solo ora, comincino a preoccuparsi seriamente della serietà dei “sacrifici” richiesti.
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