Il bello è che protagonista di questa resurrezione è quella stessa Commissione europea che non perde occasione di stigmatizzare – a suon di sanzioni e diktat – ogni “deviazionismo” dai dogmi astratti del libero mercato.
La Ue ha infatti deciso di imporre dazi medi del 47% sulle importazioni di pannelli solari cinesi. Per ora si tratta di una decisione informale, ovvero non comunicata né alle controparti né al mercato. Ma è stata presa. Verrà probabilmente ufficializzata il 6 giugno, data di scadenza della procedura.
L’Europa però non agisce per prima. Già gli Stati Uniti avevano fatto altrettanto, imponendo dazi definitivi sui pannelli solari cinesi fino al 250% (a seconda delle caratteristiche tecnologiche). Lo scopo è eslicito: proteggere le industrie nazionali (nel caso Usa) e continentali (soprattutto tedesche, in quello europeo).
Negli Stati Uniti questa misura ha già provocato, nel solo 2012, un calo delle importazioni di pannelli dalla Cina pari al 50%, mentre nel primo trimestre di quest’anno si sono praticamente annullate. Il mancato ingresso di pannelli a basso costo, peraltro, non ha avuto grandi conseguenze sui prezzi, grazie anche alla debole congiuntura economica e alla contemporanea esplosione della produzione interna di shale gas.
Del resto, nel settore sotto esame, la capacità produttiva cinese copre ormai 30 volte le necessità del mercato interno ed è pari al doppio di quanto il mercato globale è capace di assorbire. Il che rappresenta un’immagine plastica dell’irrazionalità della produzione capitalistica, in modo addirittura esemplare: c’è un immenso bisogno di energia che non derivi da idrocarburi, c’è una grande capacità produttiva globale capace di soddisfare questo bisogno, ma la “necessità” di garantire profitti alle industrie di alcuni paesi provoca sia una riduzione della produzione totale di pannelli solari (è ovvio che molte imprese cinesi, davanti alla sovrapproduzione mostruosa e alla chiusura dei mercati occidentali, dovranno chiudere) che un aumento del prezzo di quelle merci..
La Cina, lo scorso anno, aveva installati pannelli per 4,5 gigawatt, appena meno della Germania. Quest’anno dovrebbe raddoppiare (l’Italia è ferma a 3,4). Mentre gli Stati Uniti, con tutto il loro protezionismo, dovrebbero aumentare la capacità installata di quasi un 30% (intorno ai 5 gigawatt).
Le importazioni in Europa dalla Cina nel settore ammonta a circa 22 miliardi. È dunnque il più grave scontro commerciale della storia recente. «Se la Ue alza i dazi sui nostri prodotti – spiega Guangbin Sun, segretario generale per l’energia solare della Camera di commercio cinese – infligge un duro colpo al mercato europeo delle rinnovabili. I prezzi saliranno, i consumatori europei saranno danneggiati e l’obiettivo di portare al 20% entro il 2020 la quota di energia verde sarà irraggiungibile». Omette naturalmente di ricordare che probabilmente la Cina sarà costretta a trovare delle “compensazioni” riducedo le proprie importazioni dall’Europa in altri settori merceologici.
Una curiosità. Mentre le associazioni di imprese europee che producono pannelli solari paludono alla decisione («La riduzione dei sussidi europei ai prezzi ha indubbiamente dato un colpo durissimo al settore, ma l’industria può sopravvivere. A patto che venga difesa dal dumping cinese»), quelle degli installatori esprime un parere esattamente opposto, in base a uno studio secondo cui queste tariffe farebbero perdere migliaia di posti di lavoro in Europa e porterebbero a un crollo del mercato. «Meglio avere un grande mercato non sussidiato piuttosto che un piccolo mercato tenuto artificialmente in vita dai sussidi governativi. I pannelli solari non sono più una tecnologia di alto livello, sono quasi una commodity. È inutile che l’Europa insista per difenderla. Meglio puntare sui servizi».
Produttori e consumatori, presi nel loro interesse individuale o di “posizione”, sono sempre in competizione reciproca. Ma da questa guerra, checché dicano i manuali del libero mercato, non deriva – per le popolazioni nel loro insieme – alcun vantaggio. Anzi, danni sicuri.
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