“Italia a pezzi, occasione d’oro per gli investitori stranieri” a scriverlo è un articolo del New York Times, precisando – al contrario delle lamentazioni di governo e Confidustria sugli scarsi investimenti esteri nel nostro paese – “perché l’Italia è un terreno fertile per chi fa affari”. Insomma secondo gli opinion maker statunitensi per investire oggi in Italia questo è il momento buono.
Nonostante che in termini di fusioni e acquisizioni nel 2013, gli accordi in Italia abbiano rappresentato appena lo 0,5% delle operazioni M&A transnazionali, in realtà per un investitore straniero le condizioni in cui hanno precipitato l’Italia sono un’occasione da non perdere. Soprattutto per il carattere familiare di gran parte della proprietà e del managment delle imprese italiane. Un’impresa a conduzione familiare, spesso è a corto di capitali – che le banche non forniscono più – quindi sono alla canna del gas e possono vedere in un partner straniero l’occasione per espandersi sul mercato internazionale.
A tirare il ragionamento fino alle estreme conseguenze è poi l’articolo “The case for the City-State” pubblicato dal Wall Street Journal. La tesi è che l’Italia dovrebbe addirittura regredire alla situazione delle città-stato. Un banalissimo richiamo alla prosperità di alcune città-stato italiane del Medioevo e nel Rinascimento e uno sballato raffronto con l’esperienza del Tirolo rispetto ai diktat centralisti, hanno trovato eco sul quotidiano della finanza internazionale. Una civetteria giornalistica certo, ma anche un indicatore di nuovi sensi comuni che cominciano a affermarsi ripetutamente negli organi di informazione dei poteri forti finanziari del capitalismo anglosassione.
Ma la fotografia di una “Italia a pezzi” che favorisce gli investimenti a prezzo di saldo da parte di grandi e piccole multinazionale straniere, presenta anche altri problemi sulle prospettive del paese, soprattutto in un contesto di centralizzazione europea intorno al nucleo duro del nord che produce frammentazione, recessione e disgregazione negli altri paesi, soprattutto i Pigs.
Inquieta ma non sorprende, in tal senso, la tesi espressa da Tony Barber sul Financial Times, secondo cui la crisi dell’Euro finirà con una sanguinosa battaglia
Dopo la crisi politica in Portogallo, segnata dalle dimissioni del ministro delle Finanze, ci sono voluti sette giorni per riportare la situazione sotto controllo e far calmare i mercati finanziari. Per la Grecia, che come il Portogallo sopravvive grazie agli aiuti economici dei prestatori internazionali, si sta trovando il modo di mantenere aperti i rubinetti dei finanziamenti anche se non è stata rispettata la tabella di marcia delle riforme, prevista dagli accordi internazionali.
I segnali dall’Europa sono incoraggianti, ma non forniscono alcuna evidenza del fatto che la crisi stia svanendo, scrive Barber sul Financial Times, anzi questi segnali ci dicono soltanto che per la crisi dell’Eurozona sta iniziando una nuova fase. I prossimi mesi saranno costellati da tensioni politiche e sociali che porteranno i mercati a sfidare ancora una volta le capacità di risposta da parte delle istituzioni europee.
Qualsiasi forma di recupero avvenga, le forme che assumerà saranno comunque dentro un contesto fatto di frammentazione. Le aziende in Italia, in Portogallo e in Spagna, dal punto di vista di accesso al credito, sono in costante svantaggio rispetto alle imprese in Germania o in Austria. Questo fattore- secondo il Financial Times – sembra quasi prendersi gioco dei benefici che dovrebbero derivare da un’unione monetaria e rende altamente improbabile che il settore privato possa da solo contrastare la disoccupazione di massa che invece dilaga nei paesi Pigs europei.
In tal senso, per il FT, è indifferente chi vincerà le elezioni del 22 settembre in Germania, nessuno dei partiti più avanti nei sondaggi mostra interesse nel voler riequilibrare l’economia dell’Eurozona riequilibrando i vantaggi della Germania per ridurre la recessione nei paesi euromeditarranei.
L’ideale di Unione verrà sottoposto a fortissime tensioni a ridosso delle elezioni del Parlamento Europeo nel maggio2014, nel quale il FT prevede la crescita di partiti populisti ed euro-scettici.
I piani di salvataggio triennali che riguardano Irlanda e Portogallo si concluderanno tra dicembre e gennaio 2013. la Troika spera di poter chiudere la partita in tempo per dimostrare un’impeccabile gestione della crisi. Ma le difficoltà dell’Irlanda per emergere dalla recessione indica chiaramente che il ritorno sui mercati finanziari non è affatto garantito. Per quanto riguarda il Portogallo, la crisi del governo ha evidenziato i limiti della tolleranza, pubblica e privata, all’austerity. Un’uscita dal piano di salvataggio è improbabile, visto che il debito sta aumentando al 130% del Pil: in altre parole, la crescita è un miraggio lontano e un quinto della forza lavoro è ormai disoccupata. Nel frattempo, secondo gli esperti, la Grecia può ancora evitare una nuova ristrutturazione del debito. Dunque, secondo il FT, il sipario della crisi dell’Eurozona si calerà sulla scena di una battaglia all’ultimo sangue.
Non sono mai stati pochi nè marginali gli ambienti statunitensi che hanno visto con ostilità l’avvento dell’Euro e ne hanno auspicato (e operato affinchè le profezie si avverassero) la crisi e la fine. Il problema è che i lavoratori, i disoccupati, le famiglie, i settori popolari sono chiamati ad avere una funzione di totale subalternità dentro questo gioco al massacro. E’ questo che rende urgente l’affermazione di una proposta alternativa e di rottura che sottragga il nostro blocco sociale di riferimento, nel nostro e negli altri paesi Pigs europei, a questa prospettiva sanguinosa.
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