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Federal Reserve in stallo, perché la droga fa male

85 miliardi di dollari al mese, da un anno a questa parte, non hanno prodotto occupazione. Per questo Beb Bernanke, presidente della Federal Reserve, non se l’è sentita di inziare a ridurre la quantità di soldi liquidi che sta immettendo sui mercati finanziari.

Le borse hanno festeggiato la novità, convinte com’erano che ieri fosse la data scelta dal presidente uscente della Fed per iniziare il “tapering”, ovvero il lento ritorno della politica monetaria alla “normalità”, riducendo mese dopo mese le cifre “regalate” alle società finanziarie.

Ma il motivo per cui Bernank

Se Bernanke esagera

 

di Donato Masciandaro

 

Ci si aspettava una svolta e non c’è stata, ma la Banca centrale americana merita comunque una bocciatura. In questa delicata fase congiunturale la politica monetaria deve ottenere un duplice obiettivo: non strozzare la ripresa, ma al contempo riportare alla normalità i mercati finanziari. La Fed sta commettendo errori sia nell’indicare obiettivi – la disoccupazione – sia nel manovrare strumenti – gli acquisti dei titoli di Stato.

 

C’era una strada più lineare e trasparente: definire obiettivi sulla struttura dei tassi, a breve e a lunga. Ma la Fed ama l’opacità, perché occorre fare gli interessi miopi, che oggi coincidono, dei democratici e di Wall Street.
La decisione della Fed di puntare i riflettori sugli acquisti di titoli pubblici è errata, non solo per le distorsioni che ha già prodotto in termini di incertezza e volatilità, ma in quelle che può continuare a produrre. In una fase congiunturale estremamente complessa come quella attuale una buona politica monetaria statunitense dovrebbe perseguire un doppio obiettivo: da un lato evitare che la ripresa acerba degli Stati Uniti e dell’Europa venga strozzata sul nascere; dall’altro lato è necessario riportare a livelli normali la liquidità, prima che i rischi legati agli attuali eccessi si trasformino in danni concreti in termini di instabilità, che può essere monetaria e finanziaria, e quindi inevitabilmente di nuove incertezze in termini di ricaduta in recessione. Una buona politica monetaria americana potrebbe produrre ricadute positive anche sulle regioni esterne. Un ritorno credibile alla normalità sarebbe di certo una buona notizia sia per la convalescente Europa sia per i (un po’ affannati) Paesi emergenti. Purtroppo la politica della Fed è l’opposto di un disegno credibile: da qualche tempo la Fed ha sostituito la questione cruciale della comunicazione della politica – comunicare bene quello che si fa – con la politica della comunicazione – decido come comunicare il niente.

 

Una banca centrale che vuol tornare alla normalità senza rischiare di gelare la ripresa deve ripristinare il modus operandi della politica monetaria prima del 2008: avere una regola di comportamento credibile sui tassi di interesse. La regola legava la dinamica dei tassi a breve sia agli shock sui prezzi sia a quelli sul prodotto interno; la scelta sui tassi a breve si propagava su quelli a medio e lungo termine. Durante la crisi tale regola è stata necessariamente abbandonata per evitare disastri finanziari, e poi economici. Il risultato è stato una crescita gigantesca della liquidità ed un appiattimento di tutta la struttura dei tassi, con quelli a breve, che si sono schiacciati sullo zero.
Dopo cinque anni, possiamo dire che l’effetto positivo è stato quello di evitare una crisi finanziaria ancor più dolorosa ed epocale di quella che abbiamo dovuto subire – nata, per inciso, proprio da un eccesso di liquidità strutturale durato almeno un decennio – ed è comunque oramai esaurito. L’effetto negativo è il continuo accumularsi di nuovi rischi di instabilità, monetari ma al momento soprattutto finanziari, visto che nulla è di fatto successo dal punto di vista della regolamentazione.

 

Per tornare alla normalità in modo intelligente occorre una nuova regola di governo dei tassi. Una regola di comportamento chiara e credibile: da un lato, i tassi di interesse a breve rimarranno stabilmente bassi qualunque cosa accada, mentre saranno i tassi a medio e lungo termine che fin da subito possono variare a seconda che i segnali che arrivano dai prezzi e dalla produzione sia incoraggianti o preoccupanti. Dunque i tassi tornano ad essere la bussola per orientare la banca centrale, sul mercato dei titoli americani a medio e lungo termine.
La Fed non ha fatto nulla di tutto questo. In primo luogo, ha clamorosamente sbagliato l’individuazione dell’obiettivo: quando una banca centrale sceglie come sua ancora la disoccupazione, che è una grandezza macroeconomica sideralmente lontana dalle sue capacità di controllo, sta dicendo al mondo ed ai mercati che ha perso il controllo degli aggregati. In secondo luogo, l’aver separato la gestione dei tassi a breve con una politica a singhiozzo sugli acquisti dei titoli di Stato, serve poco alla stabilizzazione, in assenza dell’impegno sulla struttura dei tassi di interesse. Infatti i mercati continuano a scommettere su questa politica alla cieca, arrabbiandosi quando la direzione è quella che non piace a chi ama sempre e comunque le iniezioni di liquidità.

 

La Fed continua a navigare a vista. Non è un caso: l’opacità è meglio della credibilità e della trasparenza, soprattutto per una banca centrale che dipende dalla politica ed è in prospettiva già in clima di campagna elettorale. Ulteriore prova è l’attuale e surreale dibattito sul profilo del successore a gennaio di Ben Bernanke, il presidente della Fed. La gara sembra essere quella di trovare la più colomba tra i colombi. L’iper-colomba piace a Wall Street e piace ai democratici. Quello che in realtà servirebbe è un falco intelligente, cioè che sia credibile nell’uscita sia dall’eccesso di liquidità che dall’eccesso di deregolamentazione.

 

 

 

e non ha avviato questo rientro alla normalità è costituito di cattive notizie. La prima, che interessa soprattutto gli statunitensi, è che la “crescita” Usa è ancora stenta; tanto da convincere la stessa Fed a rivedere al ribasso le stime per l’anno in corso: dal 2,6% al 2,3. Una crescita squilibrata, che riguarda soltanto quei settori economici strettamente legati alla finanza (come la ristorazione nelle zone di uffici), ma non si trasmette a tutti i comparti “reali”.

Altro segnale negativo l’aumento dei tassi di interessi imposti sui mutui immobiliari, nonostante il costo del denaro per le banche sia praticamente a zero (in realtà guadagnano anche soltanto facendosi prestare denaro dalla Fed, visto che il tasso di inflazione è di oltre un punto più alto). E si si blocca anche la mini-ripresa dell’immobiliare molti calcoli (sui posti di lavoro) andrebbero a farsi friggere.

In realtà è il meccanismo stesso scelto dalla Fed per “immettere liquidità” a creare distorsioni. In cinque ani di tassi a zero l’1% più ricco ha aumentato il proprio reddito medio del 31%, mentre il 99% restante è rimasto fermo (una media dello 0,4%). Le disparità sociali sono insomma aumentate; chi vive di finanza e dintorni si arricchisce grazie alle “iniezioni di liquidità”, mentre chi ha un “lavoro reale” non viene nemmeno sfiorato da questa bonanza.

Il motivo è semplice: la Fed acquista ogni mese, da un anno, 85 miliardi di titoli-spazzatura detenuti dalle banche o da altre società finanziarie. Fa insomma “riciclaggio” in senso tecnico, sostituendo pezzi di carta impossibili da vendere sul mercato con dollari freschi di tipografia. Questa scelta ha indubbiamente evitando un tracollo finanziario di dimensioni ciclopiche, con effetti domino a catena. Ma “i beneficiati” non hanno affatto ripreso a finanziare l’economia reale o i consumi privati. Hano ripulito le casseforti da un po’ della merda contenuta (bel lontano dall’aver effettuato le “pulizie di pasqua”, però) e hanno mantenuto il “braccino corto” nel prestare.

Quindi la Fed non poteva cominciare a ridurre il dosaggio di questa “droga liquida”, perché avrebbe ridotto drasticamente la già scarsa propensione bancaria a concedere credito ai privati. Ma sa anche bene che, in mancanza di effetti positivi, questo “eccesso di liquidità” creerà nuovi rischi: inflazione, “bolle” settoriali, fenomeni pre-recessivi. La frase famosa è; “il cavallo non beve”. Il “liquido” c’è, ma non circola; e nella misura in cui circola fa bene a pochissimi, non al “sistema”.

La visuale della Fed è peraltro molo molto molto “statunitense”. In molti sensi. Il primo, spesso dimenticato, è che soltanto gli Stati Uniti possono permettersi – da 42 anni a questa parte – di emettere moneta a piacimento senza vederne crollare significativamente il valore. Questo perché la “credibilità” del dollaro Usa si fonda sulle testate nucleari e la “forza di dispiegamento rapido” controllate dala Casa Bianca, più che sulla “forza dell’economia” interna.

In secondo luogo, perché la Fed non è affatto una “banca centrale indipendente dal potere politico” (come la Bce, invece), e quindi le sue scelte non sono mai puramente “tecniche”. Per esempio, il terzo “quantitative easing” tutt’ora in corso serve anche a compensare i tagli alla spesa pubblica che l’amministrazione Obama è costretta ad operare per ridurre il debito federale. Una “comodità” che in Europa nessuno si può permettere.

Terzo, e di conseguenza, da 42 abnni a questa parte gli Usa possono “scaricare” sul resto del mondo i rifiuti generati dalle proprie crisi interne.

Che sia così, lo si può leggere nell’irritazione esplicita de IlSole24Ore, organo di Confindustria. E’ indubbiamente difficile, per chi è all’interno di un’area monetaria “sotto austerity” come l’eurozona, “competere” con le imprese di un paese dove invece, quando c’è un problema, si va nella tipografia della Zecca di Stato.

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Se Bernanke esagera

 

di Donato Masciandaro

 

 

Ci si aspettava una svolta e non c’è stata, ma la Banca centrale americana merita comunque una bocciatura. In questa delicata fase congiunturale la politica monetaria deve ottenere un duplice obiettivo: non strozzare la ripresa, ma al contempo riportare alla normalità i mercati finanziari. La Fed sta commettendo errori sia nell’indicare obiettivi – la disoccupazione – sia nel manovrare strumenti – gli acquisti dei titoli di Stato.

 

C’era una strada più lineare e trasparente: definire obiettivi sulla struttura dei tassi, a breve e a lunga. Ma la Fed ama l’opacità, perché occorre fare gli interessi miopi, che oggi coincidono, dei democratici e di Wall Street.
La decisione della Fed di puntare i riflettori sugli acquisti di titoli pubblici è errata, non solo per le distorsioni che ha già prodotto in termini di incertezza e volatilità, ma in quelle che può continuare a produrre. In una fase congiunturale estremamente complessa come quella attuale una buona politica monetaria statunitense dovrebbe perseguire un doppio obiettivo: da un lato evitare che la ripresa acerba degli Stati Uniti e dell’Europa venga strozzata sul nascere; dall’altro lato è necessario riportare a livelli normali la liquidità, prima che i rischi legati agli attuali eccessi si trasformino in danni concreti in termini di instabilità, che può essere monetaria e finanziaria, e quindi inevitabilmente di nuove incertezze in termini di ricaduta in recessione. Una buona politica monetaria americana potrebbe produrre ricadute positive anche sulle regioni esterne. Un ritorno credibile alla normalità sarebbe di certo una buona notizia sia per la convalescente Europa sia per i (un po’ affannati) Paesi emergenti. Purtroppo la politica della Fed è l’opposto di un disegno credibile: da qualche tempo la Fed ha sostituito la questione cruciale della comunicazione della politica – comunicare bene quello che si fa – con la politica della comunicazione – decido come comunicare il niente.

 

Una banca centrale che vuol tornare alla normalità senza rischiare di gelare la ripresa deve ripristinare il modus operandi della politica monetaria prima del 2008: avere una regola di comportamento credibile sui tassi di interesse. La regola legava la dinamica dei tassi a breve sia agli shock sui prezzi sia a quelli sul prodotto interno; la scelta sui tassi a breve si propagava su quelli a medio e lungo termine. Durante la crisi tale regola è stata necessariamente abbandonata per evitare disastri finanziari, e poi economici. Il risultato è stato una crescita gigantesca della liquidità ed un appiattimento di tutta la struttura dei tassi, con quelli a breve, che si sono schiacciati sullo zero.
Dopo cinque anni, possiamo dire che l’effetto positivo è stato quello di evitare una crisi finanziaria ancor più dolorosa ed epocale di quella che abbiamo dovuto subire – nata, per inciso, proprio da un eccesso di liquidità strutturale durato almeno un decennio – ed è comunque oramai esaurito. L’effetto negativo è il continuo accumularsi di nuovi rischi di instabilità, monetari ma al momento soprattutto finanziari, visto che nulla è di fatto successo dal punto di vista della regolamentazione.

 

Per tornare alla normalità in modo intelligente occorre una nuova regola di governo dei tassi. Una regola di comportamento chiara e credibile: da un lato, i tassi di interesse a breve rimarranno stabilmente bassi qualunque cosa accada, mentre saranno i tassi a medio e lungo termine che fin da subito possono variare a seconda che i segnali che arrivano dai prezzi e dalla produzione sia incoraggianti o preoccupanti. Dunque i tassi tornano ad essere la bussola per orientare la banca centrale, sul mercato dei titoli americani a medio e lungo termine.
La Fed non ha fatto nulla di tutto questo. In primo luogo, ha clamorosamente sbagliato l’individuazione dell’obiettivo: quando una banca centrale sceglie come sua ancora la disoccupazione, che è una grandezza macroeconomica sideralmente lontana dalle sue capacità di controllo, sta dicendo al mondo ed ai mercati che ha perso il controllo degli aggregati. In secondo luogo, l’aver separato la gestione dei tassi a breve con una politica a singhiozzo sugli acquisti dei titoli di Stato, serve poco alla stabilizzazione, in assenza dell’impegno sulla struttura dei tassi di interesse. Infatti i mercati continuano a scommettere su questa politica alla cieca, arrabbiandosi quando la direzione è quella che non piace a chi ama sempre e comunque le iniezioni di liquidità.

 

La Fed continua a navigare a vista. Non è un caso: l’opacità è meglio della credibilità e della trasparenza, soprattutto per una banca centrale che dipende dalla politica ed è in prospettiva già in clima di campagna elettorale. Ulteriore prova è l’attuale e surreale dibattito sul profilo del successore a gennaio di Ben Bernanke, il presidente della Fed. La gara sembra essere quella di trovare la più colomba tra i colombi. L’iper-colomba piace a Wall Street e piace ai democratici. Quello che in realtà servirebbe è un falco intelligente, cioè che sia credibile nell’uscita sia dall’eccesso di liquidità che dall’eccesso di deregolamentazione.

 

da IlSole24Ore

 

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