Ci sono sorpassi che fanno male. Perché ti rendi subito conto che la velocità di marcia, l’assetto su strada, l’abilità del pilota che ti è passato davanti sono tali da non ammettere discussione. Non riuscirai a prendergli la scia, non lo vedrai più già dopo qualche curva, scomparirai dai suoi retrovisori.
È quel che accaduto in questi giorni tra euro e yuan. Per la prima volta la moneta cinese ha conquistato il secondo posto tra le monete più utilizzate negli scambi internazionali, scavalcando quella battuta a Francoforte. Subito dopo il dollaro, per il momento ancora lontano (81% del totale), facilitato dal dominio esercitato nel campo delle materie prime (dal petrolio in giù). Ma soltanto un anno prima lo yuan era solo al quarto posto, avendo davanti anche lo yen giapponese.
La registrazione del sorpasso è stata attentamente fotografata da tutti i giornali economici del mondo, grazie al rapporto della Swift (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), che ha reso noto il numero magico: 8,66%. Rappresenta la quota di transazioni globali denominate in yuan e a prima vista potrebbe sembrare poco significativa. Sia per le dimensioni che per il mercato principale dove queste transazioni sono avvenute: la Cina stessa, nelle sue relazioni con “l’estero”.
Ma proprio qui si deve registrare un cambiamento “sistemico” che non mancherà di far sentire presto i suoi effetti su tutta l’economia, la finanza, il commercio globale. L’aumento di transazioni in yuan significa che la Cina sta abbandonando a tappe forzate la politica seguita fin qui (grandi acquisti di dollari e titoli di stato Usa, per tenere basso il valore dello yuan e sostenere le proprie esportazioni; mentre al tempo stesso si sostiene anche l’indebitamento Usa, che ha potuto contare su un “porto sicuro” per le proprie emissioni di Treasury, a basso rendimento e quindi poco impegnativi per le non floride casse federali statunitensi).
Acquisti che hanno gonfiato le “riserve” in dollari, fino a raggiungere i 3.660 miliardi di dollari; oltre il 20% del Pil Usa, due volte e mezzo quello italiano. Ma ora “non è più nel nostro interesse” andare avanti in questo modo, ha detto il vicegovernatore della Banca di Cina.
Ovvie le conseguenze, sottolineate subito da molti osservatori: in coerenza con le scelte dell’ultimo Comitato centrale, la Cina punta a sviluppare importazioni e mercato interno. Due obiettivi per cui è fondamentale sviluppare le transazioni economiche in yuan, invece che in dollari (le cui oscillazioni speculative costituiscono un costo). Altra conseguenza, certamente più rilevante per gli Stati Uniti: le emissioni di titoli di stato Usa avranno un acquirente in meno, o comunque con percentuali assai più basse.
Non è finita qui. Tutte le principali piazze finanziarie del mondo, a questo punto, si devono attrezzare per “aprire” gli scambi allo yuan, accentuando ancor di più la “diversificazione” delle monete usate. Sono anni che Pechino insiste sulla necessità di sostituire il dollaro con un “paniere di monete”, in modo da togliere agli Stati Uniti quel potere di “stampare moneta a volontà”, scaricando sul resto del pianeta le crisi interne. Ora i cinesi stanno “praticando l’obiettivo” per altra via. Non riuscendo a convincere i “grandi del mondo” per via diplomatica, ci stanno riuscendo “tramite il mercato”. Che non ha nazione né padrone. Stabile, perlomeno.
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