Anche ieri il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha provveduto a spiegare ai mercati finanziari – il pubblico, purtroppo, non viene messo al corrente – che la ripresa annunciata per il 2014, se pure ci sarà, sarà “debole, modesta e fragile”. Rachitica ed emaciata non sono termini da finanzieri, ma il significato è quello.
Altro punto messo in chiaro è che la Bce continuerà a “intervenire, se necessario”. tenendo presente però che l’unico obiettivo centrale a termini di statuto – il mantenimento dell’inflazione “vicino al 2% annuo” – va inteso sia al di sopra che al di sotto di questo livello.
La precisazione è importante perché conferisce alla stessa Bce – e a dispetto dei “rigorismi” dei tedeschi di Bundesbank – un margine operativo più ampio. Non certo la trasformazione della Bce in quel “prestatore di ultima istanza” che in molti (chiamati “ultra-espansivi”) pretendono, ma certamente nemmeno in quel cerbero che tanto piace a Berlino.
Sia chiaro: non si tratta di una “buona notizia”. Non c’è alle viste nessuna clamorosa iniezione di liquidità all’americana o alla giapponese, né una reviviscenza degli acquisti dei titoli di stato dei paesi Piigs. Ma la Bce sembra essersi accorta – con qualche ritardo, forse a causa delle divisioni interne – che si è entrati da tempo in deflazione. Brutta parola, che significa prezzi in calo per difetto di domanda, quindi in accelerazione della crisi (se non si vende le aziende chiudono, licenziano, diminuisce il reddito sociale spendibile, quindi calano ancora più le spese e i consumi, e altre aziende chiudono, licenziano, ecc: una caduta a vite verso lo scatafascio).
Il livello atteso di inflazione per il 2014 è davvero basso: 1,3% al massimo, più probabilmente l’1,1; anche se attualmente è addirittura allo 0,7% nel’eurozona. Sono già in deflazione conclamata Grecia, Cipro e l’appena entrata Lettonia (da appena 10 giorni!, ma i processi di assestamento all’euro sono iniziati già prima, com’è ovvio). Rischiano a breve la stessa fine Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia; forse anche la Francia. Mezza eurozona, insomma. E buona parte delle esportazioni dei principali produttori industriali (tedeschi, ma non solo) è diretta all’interno della Ue. La deflazione di alcuni – troppi – si trascina dietro anche quella di chi si sente ancora tranquillo.
Per i mercati finanziari, però, le cose non potrebbero andare meglio. E’ notizia di oggi che i titoli di stato irlandesi rendono ora appena l’1,84%, come la Gran Bretagna. Tre anni fa sfioravano il 18%, il default era vicinissimo. Ha risolto qualche problema, l’Irlanda, perché il suo debito pubblico possa essere ritenuto ora così affidabile? Ha tagliato molto la spesa pubblica, soprattutto ha “salvato” le sue banche. Ma il rating dei titoli di stato irlandesi è ancora vicino alla “spazzatura” (Bbb), mentre quello dei titoli inglesi è quasi perfetto (Aa+). Tradotto: degli irlandesi ci si può fidare, pagheranno fino all’ultimo euro a costo di crepare di fame (redimento basso), anche se la loro situazione economica fa ancora pena (rating bassissimo). E’ insomma il “tasso di obbedienza” della popolazione di un paese il metro di misura principale per gli investitori, il resto si può aggiustare…
Questo spiega in parte i timori continentali per la situazione italiana, dove l’economia peggiora a velocità crescente, la popolazione dà crescenti segnali di impazienza (anche se di segno molto diverso, dal 18-19 ottobre ai “forcofascisti”, per intenderci), ma soprattutto la classe politica o in generale “dirigente” (imprese comprese, dunque) mostra di non avere capacità di ridisegno, gestione, controllo.
Draghi, dunque, ha voluto bruciare i sogni di quanti pensano sia possibile “riformare i trattati europei” introducendo una possibilità di “sforare” i parametri o di cambiare il mandato della stessa Bce (che è frutto di un “trattato europeo” apposito). La politica monetaria di Francoforte sarà dunque anche un po’ più “flessibile”, tenendo conto delle possibili cadute nella deflazione, ma senza mai assumere le vesti di un rinato “keynesismo monetario”.
Questa è la “normalità” sognata dai neoliberisti di ogni paese europeo (vedere il commento di Donato Masciandaro sul Sole24Ore di oggi), in base al principio – certamente vero in generale – che la “gestione della moneta”, nel momento in cui ha implicazioni finanziarie forti, “ha anche conseguenze distributive sul reddito e la ricchezza”; ovvero “crea nella popolazione dei vincenti e dei perdenti”. Politica, dunque, non “tecnica gestionale”. O meglio: gestione tecnocratica, presuntamente “scientifica”, di un disegno preciso di riconfigurazione dello spazio continentale europeo. Contro chi ci vive e lavora, tedeschi compresi.
Un compito che – in assenza di uno Stato europeo – grava per ora tutto sulle spalle della Bce e della sua indubbia capacità “tecnocratica” di manovrare la politica monetaria secondo quel disegno. Da rompere, altrimenti non ne usciamo vivi.
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luciano scatanic
come fare per rompere la Ue con gli attuali governi?