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Il fascino discreto della crisi economica. Intervista a Marco Passarella (Prima parte)

Dopo le interviste a Joseph Halevi, Giorgio Gattei e Luciano Vasapollo, continua il ciclo di interviste sulla crisi economica che stiamo attraversando. È la volta di Marco Veronese Passarella.

Marco è lecturer in economics presso la University of Leeds. I suoi interessi di ricerca includono le teorie dei prezzi e della distribuzione, la dinamica macroeconomica, l’economia monetaria, nonché la storia e la filosofia del pensiero economico. Oltre alle sue pubblicazioni accademiche, è autore di varie opere divulgative, fra cui ricordiamo “L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa” (con E. Brancaccio, ed. Il Saggiatore).

DOMANDA: L’emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono. Una posizione piuttosto diffusa (appoggiata ad esempio dai teorici della rivista “Monthly Review”) è quella che attribuisce la crisi al seguente meccanismo: la controrivoluzione neoliberista ha portato ad un abbassamento della quota salari; per sostenere la domanda privata è stata quindi necessaria un’enorme estensione del credito e lo scoppio della bolla nel 2007 ha interrotto il meccanismo. Altri pensatori, come il marxista americano Andrew Kliman, ritengono che le cause della crisi non si possano trovare nella distribuzione dei redditi e che la depressione sia spiegabile tramite l’andamento del saggio tendenziale di profitto. Una visione tutta improntata sulla produzione. Lei cosa ne pensa?

PASSARELLA: La mia idea è abbastanza semplice, l’ho già esposta altrove peraltro: io credo che si siano sommati tre ordini di cause. Cause di tipo finanziario, cause di tipo istituzionale e cause di tipo economico. Di tipo finanziario perché l’innesco della crisi europea è la crisi americana, quindi in qualche modo la crisi dei paesi dell’Area Euro è una crisi importata dagli USA. E come sappiamo a sua volta negli stati uniti d’America l’innesco è stato un fattore finanziario, è stato il crollo del sistema dei derivati legato a quella particolare configurazione del sistema bancario. Quindi la causa ultima è di tipo finanziario, ma questo non vuol dire che, primo, non ci fossero delle condizioni di tipo istituzionale affinché ciò potesse accadere nella maniera in cui si è manifestato, secondo, che non ci fossero delle ragioni economiche profonde che in qualche modo hanno alimentato quella crisi.

Dal punto di vista istituzionale il ruolo ambiguo, in realtà il non-ruolo della BCE all’indomani del crollo di Lehman Brothes ha sicuramente consentito ciò che altrimenti si sarebbe potuto contenere. Che la Banca Centrale Europea non sia intervenuta per niente, e che addirittura all’inizio della crisi abbia alzato i tassi, questa cosa ogni tanto si dimentica. In ogni caso, non è intervenuta a copertura dei titoli del debito dei paesi che naturalmente erano più esposti, cioè i paesi cosiddetti periferici. Il fatto che non abbia fatto tutto ciò, che non abbia agito da banca centrale, ha naturalmente contribuito a far sì che la speculazione finanziaria, o anche semplicemente la fuga di capitali degli investitori istituzionali, si potesse manifestare.

Ma naturalmente resta da spiegare perché la crisi ha colpito inizialmente alcuni paesi dell’Area Euro, poi propagandosi anche nei paesi del resto dell’area. Secondo me la ragione è che i paesi che sono stati colpiti inizialmente erano paesi caratterizzati da un’elevata esposizione verso l’estero. Quindi la fuga di capitali che è stata innescata dalla crisi USA e poi ha colpito le periferie europee, grazie anche al non intervento della banca centrale europea, quella fuga di capitali ha la sua ragione ultima negli squilibri che si erano creati in seno all’Area Euro, tra periferie e paesi del centro. Quali sono le ragioni di questi squilibri esteri? C’è un grande dibattito al riguardo. C’è sicuramente, nel caso di paesi come la Spagna rispetto a paesi come la Germania, un differenziale di crescita. Cioè la Spagna ed altri paesi delle periferie, esclusa l’Italia, sono cresciuti più rapidamente della Germania e questo ha aperto uno squilibrio di tipo commerciale tra Spagna e Germania.

C’è stato anche l’effetto di una politica di deflazione salariale molto aggressiva praticata proprio dai paesi del centro. Mentre la Germania teneva bloccati i salari in termini reali, la Spagna invece viveva un periodo di crescita delle retribuzioni del lavoro. Questo è un altro fattore che ha agito da amplificatore degli squilibri. Credo invece che la produttività abbia contato meno, anche perché in buona misura se è vero che paesi come l’Italia hanno un problema di produttività, questa è una conseguenza della caduta della domanda interna ed estera più che la causa.

Venendo poi all’ultimo punto, crisi da sottoconsumo o crisi tendenziale del saggio di profitto? Entrambe o nessuna delle due. Cioè la teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto, che comunque andrebbe ampiamente riveduta sulla base delle nuove evidenze testuali della Mega 2 (l’edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels, ndr), può essere intesa come una sorta di tendenza di lungo periodo, nella quale si inseriscono molte controtendenze che spesso sono più forti della tendenza. Bisogna anche capire il metodo di Marx: tale tendenza di lungo periodo non può essere la causa di questa o quella crisi particolare.

Quanto al sottoconsumo, beh, inizialmente semmai c’è stato un sovraconsumo a debito delle famiglie americane all’origine della crisi, a cui poi sì è seguito un sottoconsumo come effetto della deflazione da debiti. Dunque nessuna delle due spiegazioni tradizionali è convincente fino in fondo o, meglio, sono entrambe spiegazioni del fenomeno che secondo me è un fenomeno complesso.

DOMANDA: in realtà il discorso più che sul sottoconsumo vero e proprio era sull’aumento della disuguaglianza e il “keynesismo privatizzato” a partire dagli anni ’80, per far fronte al calo dei salari.

PASSARELLA: L’aumento della disuguaglianza c’entra, ma non è la causa prima della crisi. Non è la causa con “C” maiuscola, ma è naturalmente parte di quello che abbiamo visto. Nel senso è ciò che ha spinto anche verso l’indebitamento delle famiglie e tutto quello che sappiamo.

DOMANDA: Analizzando l’andamento dell’economia mondiale, si può notare che l’economia americana, seppur in maniera ancora debole, appaia in ripresa, mentre la maggior parte delle economie europee arranca. É quindi sensato pensare che vi siano elementi peculiari dell’Unione Europea e dell’Eurozona che hanno contribuito ad aggravare la crisi. Quali sono questi elementi e qual è stato il ruolo da essi giocato?

Più in generale, per alcuni l’UE è una struttura neutra, con anzi un potenziale di maggiore democratizzazione, per altri è un’istituzione di classe e uno strumento di imposizione di politiche conservatrici. Qual è il ruolo di classe giocato dall’Unione Europea?

PASSARELLA: La risposta è banale, perché gli Stati Uniti sono uno stato federale, sovrano sul piano valutario e fiscale, che non ha praticato politiche di austerità nel corso della crisi, anzi ha praticato politiche moderatamente espansive. Chiaramente si poteva fare di più e di meglio, ma qualcosa è stato fatto. Viceversa l’Area Euro è composta da paesi forti, che ne decidono l’indirizzo di politica monetaria e di politica fiscale, e paesi deboli che invece subiscono quelle decisioni. Quindi non è uno stato federale, ma è composta da governi nazionali, la maggior parte dei quali non è sovrano né sul piano monetario né sul piano fiscale.

Nota che altro conto sarebbe dire che uscendo dall’unione valutaria europea si acquisisce automaticamente la sovranità monetaria. Io non sto dicendo questo. Sto dicendo che nella situazione data [la sovranità, ndr] non c’è. Non c’è per esempio in paesi come l’Italia, ed è nel suo insieme un’area in cui sono state praticate politiche, come dire, deflattive e di austerità, i cui risultati sono esattamente la crescita zero della maggior parte dei paesi dell’area. Anche perché – dati gli squilibri interni all’area, ma esterni ai singoli paesi che la compongono – crescere, per i paesi periferici, significa aumentare ulteriormente gli squilibri esteri.

Abbiamo detto che il differenziale di crescita, per esempio tra Spagna e Germania, è una delle ragioni per cui tra quei due paesi si è aperto un divario sul piano della bilancia commerciale e più in generale sul piano della bilancia dei pagamenti. Quindi in Europa sono state praticate politiche deflattive, politiche di restrizione fiscale, e all’inizio anche politiche di restrizione monetaria. [Per quanto riguarda le politiche monetarie] ora non è più così. Draghi, da questo punto di vista, ha cambiato indirizzo, anche se non a sufficienza. E poi non bisogna pensare che la politica monetaria possa risolvere tutti i problemi. I risultati per l’Unione Monetaria Europea sono in linea con le politiche che sono state praticate.

È l’Area Euro un’opportunità o è invece una camicia di forza? Io non credo sia un’opportunità. Non lo è per come è stata disegnata. È stata disegnata per funzionare esattamente da area in cui si praticano politiche deflattive ad uso e consumo dei paesi del centro: paesi come la Germania che basano il proprio modello di crescita sull’aggressione dei mercati esteri, ma anche altri paesi forti, come la Francia, che pure sul piano dei fondamentali dell’economia hanno problemi, così come hanno problemi sul piano della bilancia commerciale, che però vedono in queste politiche deflattive uno degli strumenti per poter forzare un processo di centralizzazione e concentrazione dei capitali. Quindi, da questo punto di vista, per paesi non economicamente marginali, ma comunque politicamente marginali come l’Italia, questa unione valutaria è una camicia di forza. Talvolta sento dire: “Ma noi dovremmo combattere il capitale, non combattere l’Euro”. Ma l’Area Euro è la forma storicamente e, come dire, geograficamente determinata in cui il potere delle classi dominanti in Europa si declina. Non si può combattere il capitale in astratto. Il che non vuol dire, naturalmente, che non vi siano contraddizioni e che non vi sia, oltre che una guerra feroce tra capitali all’interno dell’area euro, anche un terreno di ricomposizione di questa guerra nella lotta contro le classi lavoratrici. Le politiche deflattive che vengono applicate in tutta Europa, in periferia, ma anche centro europeo, sono, in fondo questo terreno di ricomposizione. I capitali si fanno la guerra, ma c’è un fronte comune rappresentato dalla guerra ai lavoratori. Detto questo, è allora necessario e sufficiente uscire o rompere i vincoli posti dall’Area Euro, dall’unione valutaria europea, per riacquisire sovranità e dunque per rilanciare quindi politiche progressiste, diciamo semi-progressiste? Io non credo. La realtà è che siamo in una situazione piuttosto difficile, diciamo che così non si può continuare. Bisogna però essere consapevoli che la sola uscita dall’area valutaria, che peraltro comporterebbe automaticamente la rimessa in discussione della stessa Unione Europea, di per sé non garantirebbe quella sovranità monetaria, fiscale e soprattutto quelle politiche a favore delle classi lavoratrici che vengono auspicate, almeno da economisti progressisti come sono io. L’uscita è probabilmente condizione necessaria, ma non sufficiente.

Intervista a cura di “Noi restiamo Torino”

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