L’Istat non aveva fatto in tempo a pubblicare i suoi nuovi dati sull’occupzione che già partivano i tweet renziani. Prima i dati, naturalmente: a dicembre, mese anomalo perché le vacanze di fine anno generano sistematicamente occupazione temporanea (alberghiero, ristorazione, centri commerciali, ecc), ci sono stati 92.00 occupati in più. Su base annua (bilancio finale) sono appena 109.000. Ed è comunque meglio così piuttosto che un ulteriore calo.
Ma l’Istat – naturalmente – non può dire a così breve distanza dalla rilevazione se si tratti di posti di lavoro temporanei, precari, stabili, ecc. Dall’altro lato aumentano anche gli “inattivi” (28.000 unità), come conseguenza della riforma Fornero che costringe gli anziani a restare “forza lavoro disponibile” e quindi statisticamente rilevata. Paradossale, ma non stranissimo, che i giovani tra i 15 e i 24 anni vedano contemporaneamente aumentare sia gli occupato (+33.000) sia gli inattivi (+37.000).
Normale, anche se niente affatto innocente, la strumentalizzazione del governo, così ansioso di darsi ragione da dimenticare persino il naturale scorrere del tempo. Renzi ha infatti subito twittato, ripreso da tutte le agenzie:
“Centomila posti di lavoro in più in un mese. Bene. Ma siamo solo all’inizio. Riporteremo l’Italia a crescere #lavoltabuona”. Così Matteo Renzi con un tweet commenta gli effetti del Jobs Act.
Gli “effetti” sono quei fenomeni che derivano da un’azione, un “dopo” che presuppone un “prima”. Il Jobs act è ufficialmente entrato in vigore il 1 gennaio, ma di fatto è ancora in alto mare, vista la quantità di decreti attuativi che debbono essere redatti e approvati per renderlo qualcosa di più di un elenco di titoli. Ma in ogni caso dicembre 2014 è arrivato prima di gennaio 2015, quindi il Jobs act semplicemente non c’era, quindi non poteva produrre nessun effetto. Nemmeno inventato (tipo l’”entusiasmo” delle imprese che avrebbero cominciato ad assumere prima dell’entrata in vigore delle nuove regole; nessuno è così matto…).
A Renzi era già capitato un infortunio simile, all’inizio dell’estate, quando si intestò l’aumento di 100.000 posti di lavoro in un altr mese “anomalo”. Ma non fa niente, deve aver pensato; chi vuoi che si ricordi delle cazzate che scrivo nei tweet?
A tutti ricordiamo delle semplici considerazioni statistiche: una “tendenza” si concretizza in un periodo lungo almeno alcuni mesi consecutivi, non è invece individuabile in un dato singolo. Non a caso le rilevazioni statistiche distinguono tra dati mensili, trimestrali, annuali, serie storiche, ecc. E dobbiamo tranquillamente ricordare che dal 2009 a oggi il tasso di disoccupazione è passato da poco più dell’8% ad oltre il 14, mentre quella giovanile è praticamente raddoppiata.
Tra le cose sgradite che Renzi e nanerottoli che lo circondano fingono di non vedere ci sono altri dati Istat, pubblicati nello stesso giorno e accolti da un fragoroso silenzio: “Nel confronto con novembre 2013 l’occupazione nelle grandi imprese diminuisce dello 0,9% al lordo della Cig e dello 0,5% al netto dei dipendenti in Cig”. Le grandi imprese sono quelle che, seppure in piccola misura, svolgono una funzione di innovazione produttiva, competizione internazionale, “traino” per tutta l’economia nazionale. Se prosegue implacabile – come sta avvenendo da anni (questa sì che una “tendenza”) – la riduzione dell’occupazione in questo segmento diventa decisamente palese che la struttura produttiva del paese va declinando per dimensione, qualità, importanza. E non sarà qualche cameriere o pizzaiolo in più o in meno a cambiare il quadro complessivo.
L’altra, forse ancora più rilevante, è il livello salariale dei lavoratori under 30, quelli che Renzi giurava di voler aiutare. Meno di 850 euro al mese. Secondo un report DataGiovani, lo stipendio dei giovani al primo impiego staziona su una media di 848 euro mensili: ma è molto facile trovare chi ne prende anche 300 in meno (la media meridionale, guarda caso, è di 90 euro in meno).
E non aiuta nemmeno tanto la laurea, che porta con molta fatica – e non troppo di frequente – al di sopra dei 1.000 euro. Chiaro che non tutto dipende dal governo; sono le imprese a stabilire, senza mezzitermini n* contrattazione collettiva, questi livelli. Ma se un governo si vanta del fatto che “a lasciar mano libera alle imprese si ottiene la crescita”, allora anche questi stipendi da fame sono da attribuire a suo “merito”.
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