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Il cancro chiamato Unione Europea, col focolaio in Germania

Quando gli articoli allarmati si succedono, persino se nascosti da infiniti altri che ripetono a pappagallo gli input governativi, vuol dire che qualcosa di grava sta montando. E preoccupa soprattutto i soggetti in grado di interpretare i “segni caratteristici” come sintomi di una tempesta già alle porte. Mentre a sinistra, soprattutto in quella radicale o autodefinita “antagonista” si dorme tranquillamente, interrogandosi su come fare un nuovo cartello elettorale o come guadagnare qualche titolo di giornale, tra un fumogeno e una manganellata.

I due pezzi molto pensati che vi presentiamo prendono in considerazione scenari diversi, ma convergenti. Entrambi, per esempio, identificano nella Germania un motore di follia sempre identico a se stesso (“mettere ordine in Europa, guadagnadoci”), anche se divergono nel considerare il nuovo governo greco come un possibile “cavallo di Troika” in grado di penetrare e distruggere le fortificazioni (i trattati e le “regole stupide” oggi vigenti) oppure come una “risposta sbagliata” a un problema comunque gravissimo.

Guido Salerno Aletta è un analista di Milano Finanza, giornale economico meno letto ma più libero de IlSole24Ore (non si è organo di Confindustria senza pagare qualche dazio). Paolo Savona vanta invece un’origine nel Servizio Studi della Banca d’Italia, poi docente, amministratore delegato della Bnl, direttore generale di Confindustria con Guido Carli presidente, fondatore della Luiss, ministro dell’industria nel governo Ciampi, ecc, ecc. Uno studioso prestato spesso ad incarichi operativi, ma rimasto uno dei pochi a pensare la transizione (quella in atto, così come le precedenti) come un problema da affrontare, non come un destino da subire.

Il primo trova obbligatorio che la Grecia si “prenda una vacanza dall’euro”, essendo iimpossibile – secondo tutti gli osservatori – che possa ripagare il debito e contemporaneamente “riprendere a crescere”. Ossia il programma demente della Troika, impostato e reso obbligatorio dalla pressione tedesca. Una tesi già sostenuta da Martin Feldstein sul Fianancial Times di cinque anni fa, prima che la “cura sperimentale” del caso greco venisse varata, quando ancora il salvataggio di Atene sarebbe costato poche decine di miliardi. I dati portati a supporto della convenienza per i greci – e non solo loro – di uscire almeno temporaneamente dalla moneta unica e dai relativi obblighi comunitari, sono meno drammatici di quanto i terroristi del “fuori dell’euro solo la morte” cercano di far crede. In ogni caso, i greci non avrebbero più molto da perdere.

Secondo questa lettura, dunque, “Il governo greco, a conclusione delle trattative bruxellesi, ha accettato la sconfitta, ritirandosi apparentemente in buon ordine. Ha subito mandato una lettera di impegni, addirittura 64, uno più vago degli altri. Sono molti più degli uomini che, secondo Omero, si erano nascosti nel cavallo di legno che gli Achei avevano lasciato davanti alle mura di Troia. I greci le hanno provate tutte; forse hanno fatto finta di abbandonare il campo. La lettera di intenti potrebbe essere un diversivo, uno stratagemma che cela le vere intenzioni: ‘Timeo Danaos’…

Lettura ottimistica, certamente. Ma fondata sulle “necessità oggettive” della leadership di Atene, qualunque cosa abbiano intesta.

Più drammatica le lettura di Paolo Savona. Europeista della prima ora, deluso dalla piega che preso la creatura comunitaria, scatenato contro la Germania che “si sta comportando con la Grecia come i paesi vincitori nella Prima Guerra Mondiale si sono comportati con lei a Versailles”. Una tesi da questo giornale già sostenuta qualche settimana fa (https://contropiano.org/editioriali/item/28973-il-ruggito-del-canarino), così come teniamo da sempre d’occhio i “mutamenti epocali geopolitici, i cui aspetti economici sono sintetizzabili nella sostituzione del lavoro dell’uomo con quello di macchine elettroniche, l’ascesa del peso demografico negli equilibri globali, l’incessante aumento della ricchezza cartacea e contabile su quella reale e la competizione mossa dai paesi poveri a quelli benestanti che si riflette sul livello di protezione sociale e, quindi, di vita”.

Nel suo caso la disperazione lo porta alla ricerca di un messia salvifico, “un leader che invece di chiedere di rispettare formalmente il rigore economico o di rompere tutto ciò che di buono è stato fatto in Europa, spieghi ai cittadini europei che essi devono stare insieme, trovando il modo per rispettare le regole della democrazia e il diritto di chi è in difficoltà a esserne aiutato a uscire, invece d’essere sospinto verso la perdita delle sue libertà”.

In mezzo, l’ottusa pretesa di seguire un “pensiero unico” germanocentrico anche dal punto di vista culturale, mentre “Solo attraverso un scuola unica europea che valorizzi la ricchezza delle culture locali e ricerchi un indirizzo comune sul tipo di società che si intende costruire, può sbloccare la situazione”.

Sconcerta, lo diciamo subito, lo scerto assoluto  tra la serietà dell’approccio analitico e la pochezza della “soluzione” immaginata. Ci sembra che anche il ruolo dell’intellettuale, se esterno agli ingranaggi decisionali, stia scontando la disparità tra il capire e il poter disporre. E’ un problema che ci riguarda tutti, ma per chi resta solo diventa drammatico.

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L’articolo di Guido Salerno Aletta:

E quello di Guido Savona:

Il nodo del futuro dell’Europa dopo la Versailles di Atene

La Germania si sta comportando con la Grecia come i paesi vincitori nella Prima Guerra Mondiale si sono comportati con lei a Versailles.

Keynes si ritirò dalle trattative per protesta e scrisse il celebre pamphlet “Le conseguenze economiche della pace”, spiegando che infliggere danni di guerra, ossia una politica deflazionistica a un paese stremato sul piano economico avrebbe avuto drammatiche conseguenze sul piano sociale e politico.

Gli storici attribuiscono l’ascesa del nazismo a questo errore di prospettiva.

Gli Stati Uniti non ripeterono l’errore alla fine della Seconda Guerra Mondiale, anzi rovesciarono la posizione fornendo aiuti ai paesi sconfitti con il celebre Piano Marshall, al quale aggiunsero con lungimiranza anche un abbuono del debito pubblico contratto dalla Germania.

L’Unione Europea, sotto la spinta di una Germania sorretta da pochi altri paesi membri e l’acquiescenza dei paesi fondatori della Comunità Economica Europea, tra cui l’Italia, mostra di non aver capito la lezione della storia.

Questa ignoranza ha già prodotto un allontanamento dagli ideali europei, così ben espressi nei Trattati dell’Unione (ultimo l’art. 2 del Trattato di Lisbona) e quindi non ignorabili, e l’ascesa di forze che, dati i tempi, non hanno carattere né bellico, né dittatoriale (si spera), ma hanno tutte le sembianze della non democrazia.

Tsipras, Le Pen, Salvini e altri sono figli di questo errore di prospettiva.

La BCE di Draghi cerca di liberarsi dei vincoli che le impediscono di incidere in profondità sulla crisi economica europea (e i difetti di quella mondiale), ma per fare ciò accetta di affiancare l’errore degli organi dell’UE, ossia condizionare i suoi interventi al rispetto della politica europea sbagliata, invece di impostare una soluzione come quella che molti Governi diedero alla Grande Crisi del 1929-33 – collocando debiti e crediti di banche e imprese in appositi fondi pubblici – o quelli decisi dagli Stati Uniti e paesi alleati nei confronti dei paesi sconfitti.

Perché ciò avvenga è legato al DNA sociale dei paesi coinvolti, ossia è fenomeno di culture collettive: rigore tedesco e accondiscendenza italiana, per i due poli geografici che ci interessano.

Ho già segnalato in un mio scritto che, per i tedeschi, questa cultura ha radici profonde che si trovano ben espresse nel Piano del ministro dell’economia nazista Walter Funk presentato nel 1936: la Germania è il paese d’ordine d’Europa; le monete europee devono entrare nella logica che guida il marco tedesco; l’industria la sanno fare loro (con qualche capacità dei francesi) ed è giusto che si concentri nel loro territorio; gli altri paesi (Italia compresa) devono dedicarsi all’agricoltura e ai servizi per rendere sana e piacevole la vita di tutti.

La differenza profonda è che allora intendevano imporre questa filosofia sociale manu militari, ora invece seguono una via economica che l’architettura istituzionale dell’UE consente di perseguire.

I miei amici tedeschi non hanno gradito l’invito a meditare su questi aspetti della convivenza civile e delle tradizioni culturali e artistiche eccelse che molto apprezzo, ritenendolo invece un’offesa.

Eppure è un punto cardine per sciogliere il nodo del futuro dell’Europa, dove il pensiero unico non è accettabile e l’azione da fare nel lungo periodo, iniziando però da oggi, è soprattutto culturale.

Solo attraverso un scuola unica europea che valorizzi la ricchezza delle culture locali e ricerchi un indirizzo comune sul tipo di società che si intende costruire, può sbloccare la situazione.

Le tre spinte esogene – l’abbassamento del prezzo del petrolio, la svalutazione dell’euro rispetto al dollaro e la moneta abbondante – faranno emergere una piccola ripresa produttiva e occupazionale che verrà usata per ribadire la correttezza della politica economica sconclusionata dell’UE, aggiungendo danni a beffa.

Siamo di fronte a mutamenti epocali geopolitici, i cui aspetti economici sono sintetizzabili nella sostituzione del lavoro dell’uomo con quello di macchine elettroniche, l’ascesa del peso demografico negli equilibri globali, l’incessante aumento della ricchezza cartacea e contabile su quella reale e la competizione mossa dai paesi poveri a quelli benestanti che si riflette sul livello di protezione sociale e, quindi, di vita.

Continuiamo invece a parlare di deficit dei bilanci statali in eccesso di decimi di punto, di rientro dai livelli di debito pubblico sul PIL, di privatizzazioni e di riforme del lavoro e della pubblica amministrazione, tutti fattori che aggiungono disoccupazione e malessere sociale.

Possibile che non emerga un leader che invece di chiedere di rispettare formalmente il rigore economico o di rompere tutto ciò che di buono è stato fatto in Europa, spieghi ai cittadini europei che essi devono stare insieme, trovando il modo per rispettare le regole della democrazia e il diritto di chi è in difficoltà a esserne aiutato a uscire, invece d’essere sospinto verso la perdita delle sue libertà?

Vogliamo una volta per tutte riaprire un dibattito su che tipo di società stiamo costruendo e che sembrava risolto dopo le lotte per gli Statuti del XIX secolo e per il Welfare del XX?

Paolo Savona    

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