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Atene torna a chiedere la “ristrutturazione” del debito

Attenzione, il “caso Grecia” non sta andando come la maggioranza degli osservatori distratti andava pensando e scrivendo. La sproporzione assoluta di rapporti di forza e l’evidente irrealismo della posizione iniziale del governo Syriza (restare nella Ue e nell’euro, ma ricontrattare tutti gli accordi ormai “fissati” in trattati costituenti, come peraltro chiesto dalla maggioranza della popolazione ellenica) sembrava facilitare una preisione quasi scontata: Tsipras e i suoi, più o meno rapidamente, saranno costretti ad arrendersi.

Può ancora darsi, naturalmente, che ciò accada, ma per il momento la “resistenza oplitica” scalcia con forza sufficiente a non far richiudere la lapide e lasciar procedere la locomotiva euro-tedesca come se nulla fosse. D’altronde ciò che sta “chiedendo” la Troika (o la sua nuova forma a “quartetto”, il cosiddetto Brussels Group) è ingestibile all’interno del paese. Anche l’ultima lista di “riforme strutturali” mandata dal governo di Atene ai presunti partners europei è stata bocciata come “insoddisfacente”, in quanto fondata soprattutto su lotta alla corruzione ed evasione fiscale (dal ritorno inquantificabile preventivamente) anziché su tagli alle pensioni e alla sanità, un ulteriore massacro di tutele e salari, privatizzazioni e altre misure di “austerità, che certamente danno un risultato contabile più certo fin dasubito. Ammazzando un bel po’ di gente, ovvio, ma che volete che gliene a freghi a quelli lassù…

Il discorso che ieri sera Alexis Tsipras ha rivolto al Parlamento greco annuncia una nuova svolta nell’atteggiamento negoziale di Atene. «La ristrutturazione del debito greco è necessaria affinché Atene possa rimborsarlo». “Ristrutturazione” significa riduzione con perdite a carico dei creditori – i paesi dell’eurozona – e ricontrattazione dei termini di pagamento del debito a quel punto residuo. Insomma: “vogliamo pagare, ma meno e in tempi più lunghi, a tassi più bassi e in proporzione alla crescita dell’economia nazionale”.

Si tratta della condizione su cui Syriza aveva vinto le elezioni del 25 gennaio, ma che era stata accantonata davanti all’Eurogruppo lo scorso 20 febbraio, per ottenere un prolungamento di quattro mesi del “programma di aiuti” siglato dal governo precedente e quindi anche le previste tranche residue di finanziamento.

Punto e a capo, dunque. Atene riparte di lì, con immaginabile gioia delle “istituzioni” che avevano già archiviato la questione tra i “non se ne parla più”. In queste ore, infatti, sono ancora in corso le trattative sulla base della “lista” di riforme inviata da Atene, con i funzionari della Troika impegnati ad indicare le misure per renderla “soddisfacente” dal proprio punto di vista. La possibilità di un accordo a breve, dunque, si allontana.

Il governo greco, nelle parole di Tsipras, cerca un «compromesso onorevole con i partner europei ma che non ci sarà una incondizionata capitolazione». Qualcosa di diverso, insomma, da quanto fatto dai governi precedenti (Papandreou e Samaras, rispettivamente “socialisti” e conservatori), che non hanno realizzati «nessuna riforma utile al Paese salvo varare politiche di austerità». Di nuovo al centro dell’impegno, dunque, misure contro il «contrabbando, lotta al lavoro nero, maggiori controlli sui trasferimenti bancari, e una nuova tassazione delle licenze televisive e radiofoniche» (oggi praticamente gratuite).

La Grecia può del resto vantare buoni argomenti a favore di una ristrutturazione del debito. In una lettera del ministro delle finanze, Yanis Varoufakis, pubblicata per illustrare cosa c’è dietro il falso video in cui lo si vede mostrare il dito medio mentre parlava della Merkel, c’è una ricostruzione puntigliosa della follia commessa dalla stessa Merkel (quindi da Wolfgang Schauble e Jens Weidmann, rispettivamente ministro delle finanze e presidente della Bundesbank) nel definire le modalità del “salvataggio” della Grecia.

Quando a inizio 2010, il governo greco non era più in grado di onorare il suo debito nei confronti delle banche francesi, tedesche e greche, ero contrario a chiedere un altro ingente prestito ai contribuenti europei, e per tre ragioni.

La prima: più che un salvataggio per la Grecia, il nuovo prestito era un cinico trasferimento di perdite private dei bilanci bancari che sarebbe andato a pesare sulle spalle dei greci più vulnerabili. Quanti dei contribuenti che hanno pagato quei prestiti sanno che più del 90% dei 240 miliardi prestati alla Grecia sono andati alle istituzioni finanziarie, e non allo Stato o ai greci?

La seconda ragione: era chiaro che se già così la Grecia non era in grado di restituire il debito, le condizioni di austerità poste dai “piani di salvataggio” avrebbero dato il colpo di grazia ai redditi nominali dei suoi cittadini, rendendo il debito nazionale ancora meno sostenibile. I greci non avrebbero più potuto restituire il debito vertiginoso e i tedeschi e gli altri europei sarebbero dovuti intervenire di nuovo.

La terza ragione: far passare un salvataggio bancario come un atto di “solidarietà” ingannando la gente e i Parlamenti e non aiutando i greci – oltre ad appesantire il fardello dei tedeschi – non poteva che minare la coesione dell’Eurozona. La Germania se l’è presa con i greci, i greci se la sono presa con i tedeschi e, nel momento in cui sempre più Paesi si trovavano ad affrontare le strette fiscali, l’Europa si è rivoltata contro se stessa.

Il fatto è che la Grecia non aveva il diritto di chiedere un prestito ai tedeschi – o a qualsiasi altro contribuente europeo – quando il suo debito pubblico era insostenibile: prima avrebbe dovuto intraprendere una ristrutturazione del debito e dichiarare un default parziale nei confronti dei suoi creditori privati. Ma, allora, questa posizione “radicale” fu ignorata. I cittadini europei avrebbero dovuto chiedere ai loro governi di non pensare a trasferire le perdite private su di loro; invece, non lo hanno fatto e il trasferimento è stato messo in atto poco tempo dopo.

Il risultato è stato il più grande prestito della storia che dei contribuenti abbiano mai contratto, concesso a condizione di un piano di austerità così severo da far perdere un quarto del reddito ai suoi cittadini e così è stato impossibile ripagare il debito pubblico o privato. La crisi umanitaria che ne è conseguita, ed è in corso, è tragica.

Che ora Atene torni a pretendere una ristrutturazione del debito è insomma una scelta politica fondata sulla consapevolezza che non si può arretrare oltre, pena il precipitare nel caos il paese. Una mossa obbligata.

Anche altri argomenti tirati fuori da Tsipras nel suo discorso al Parlamento puntano a “ricambiare” le accuse di inaffidabilità ricolte ai grecia dalle “isituzioni” sovranazionali. Ha ricordato per esempio lo «scandalo Siemens» (mazzette distribuite in Grecia, secondo una sentenza di condanna emessa da una corte tedesca). Soprattutto ha cavalcato lo scandalo della “lista Falciani” – i grandi evasori internazionali che avevano aperto conti segreti nella filiale di HSBC in Svizzera – la quale viene chiamata ormai “lista Lagarde” (da presidente del Fondo Monetario Internazionale).

E non per semplice propaganda. Si tratta dell’elenco delle tangenti pagate in Grecia sia per le Olimpiadi del 2004 che per le armi acquistate da Germania e Francia (si veda anche http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/09/28/tsunami-in-grecia-32-politici-sotto-accusa-per-tangenti-e-fondi-neri/366594/). In quell’elenco c’erano i nomi dei governanti di allora ad Atene, il gotha dell’imprenditoria ellenica, armatori, giornalisti e faccendieri al momento ancora impuniti. Il solo condannato, fin qui, è stato l’ex ministro della Difesa Akis Tzogatzopoulos, braccio destro di Andreas Papandreou: a otto anni per aver strutturato società off­shore da 100 milioni di euro. Solo 25 le verifiche effettuate su quella lista, in azione congiunta tra il Fmi e il governo Samaras. Per tutti gli altri, omertà totale, con il beneplacito della Lagarde, mentre la Grecia veniva sottoposta al più terribile esperimento di contrazione dei redditi in tempi di pace che si sia mai visto.

Non è il clima migliore per “arrivare a un accordo”. O, vista da Atene, è il modo migliore per non farsi schiacciare. Il problema, come ricordavano solo tre giorni fa, è l’esistenza o meno di un “piano B”. Se le “istituzioni” sovranazionali non cambiano atteggiamento – e non ne hanno alcuna intenzione – cosa farà il governo Syriza?

Un percorso tutto da seguire, perché, comunque vada, mette in chiaro che l’Unione Europea è un dispositivo del capitale multinazionale, non la “libera associazione tra i popoli europei”. E si tratta di un dispositivo che non prevede alcuna “riformabilità dal basso”, ma solo “aggiustamenti flessibili” dall’alto.

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