Difficile resistere alla tentazione di mettere il dito nella piaga. Nella vulgata mediatica mainstream, “l’America” ha trovato la via della crescita e dell’aumento dell’occupazione, per cui dovremmo imitarla in tutto e per tutto (a partire dall’annullamento delle tutele dei lavoratori) e tacitare i critici.
Il problema è che non è vero. Punto. I dati sul Pil Usa sono da sempre oggetto di molte critiche e distinguo, per le statistiche ufficiali usano standard diversi da quelli in uso nel resto del mondo, e sono genere molto complicati dalla forte di presenza di imprese multinazionali (non tutto quello che figura come “produzione interna” è realmente tale, perché incorpora un grande numero di componenti prodotti altrove).
Ma neanche il dato sull’occupazione è vero, ma solo in parte per gli stessi motivi “tecnici”. Nell’ultima settimana, per esempio, ci è stato detto che l’occupazione Usa era cresciuta di 142.000 unità, che a noi sembrano moltissime, ma laggiù sono meno del necessario per reggere l’aumento della popolazione (immigrazione compresa). E infatti gli analisti avevano considerato questo dato “deludente”, di 60.000 unità inferiore alle attese.
Ora, a un calcolo più preciso, si scopre che in realtà non c’è stato alcun aumento dlel’occupazione, ma addirittura una diminuzione. E anche molto consistente. Per esempio, IlSole24Ore scrive che
I calcoli sono di David Rosenberg, economista di Gluskin Scheff. E hanno merito: “Aggiungendo la beffa all’inganno, la settimana lavorativa si è accorciata in settembre a 34,5 ore dalle 34,6 ore di agosto, uno sviluppo che equivale di fatto a una perdita di 348.000 posti di lavoro”. Vale a dire che l’economia americana non ha affatto sostenuto la creazione di lavoro, piuttosto ne ha decretato una contrazione significativa: dell’ordine netto di 265.000 impieghi, una volta sommate le revisioni al ribasso di circa 60.000 posti relative ai due mesi precedenti.
Naturalmente bisogna ricordare che l’accorciamento della giornata lavorativa media è dovuta a scelte aziendali, non a una normativa di protezione dei dipendenti. Insomma: le imprese riducono la produzione e quindi “mandano a casa” prima i lavoratori, con ovviamente meno salario.
C’è poi da considerare la “qualità” dei nuovi posti di lavoro mettendola in relazione con quella dei posti persi. Ancora dal Sole:
Wal-Mart ha eliminato 450 posti dal suo quartier generale. Dunkin Donuts chiuso cento locali e Macy’s 40 grandi magazzini. Caterpillar prevede la cancellazione di 10.000 buste paga entro il 2018. Sprint ha pronti tagli occupazionali come parte di risparmi per 2,5 miliardi. E così via: il mese scorso Challenger, Gray & Christmas ha calcolato che sono stati licenziati 58.877 lavoratori, un aumento del 43% da agosto, culmine di un anno che finora ha visto l’annuncio di 493.431 esuberi, in rialzo del 36% sull’anno scorso.
A prima vista, le grandi società tagliano occupazione “buona”, magari anche molto differenziata quanto a competenze (i commessi di Wal-Mart non “pesano” quanto i blue collar e i tecnici di Caterpillar), ma sicuramente superiore a quella nuova: camerieri, cucinieri, commessi, ecc. L’unica eccezione di qualità viene da un incremento dei posti nella sanità, come effetto indiretto del Medicaid imposto da Obama (una sorta di assicurazione sanitaria obbligatoria, in parte coperta dallo Stato, estesa anche a figure sociali che prima ne erano prive per insufficienza reddituale). Anche i salari orari medi hanno fatto peggio delle aspettative, rimanendo invariati. Gli analisti puntavano su un incremento dello 0,2%.
Il tasso di disoccupazione ufficiale è perciò rimasto stabile al 5,1%. Ma si tratta di un dato notoriamente bugiardo, perché non considera disoccupati i cittadini che hanno smesso di cercare lavoro, ossia quelli che in Italia vengono chiamati “scoraggiati”. Per capire quanti sono si ricorre a un dato comparativo, non diretto, ossia alla percentuale di americani che partecipano alla forza lavoro. Questo livello è sceso in settembre al 62,4% (era a 62,6 in agosto), ed è il livello più basso da metà Anni 70.
Il numero di cittadini statunitensi che non risultano più far parte della forza lavoro – e non sono più coperti da nessun ammortizzatore sociale – sono perciò aumentati di 579 mila unità, raggiungendo l’agghiacciante cifra di 94,6 milioni.
Non sembra la fotografia di un paese economicamente in grande salute.
Altri segnali di difficoltà arrivano dall’Alaska, dove la decisione di Shell di sospendere le trivellazioni nel mare di Berings rischia di accentuare la crisi della regione. Qui il calo del prezzo del petrolio è stata un’autentica iattura, perché ha fatto crollare sia l’occupazione che le entrate fiscali, al punto che potrebbe finire in bancarotta (seguendo l’esempio della California, alcuni anni fa). E infatti Shell ferma la ricerca di altri giacimenti perché con questi prezzi l’estrazione di greggio nel mare ghiacciato avverrebbe in sicura perdita, così come sta avvenendo in tutto il settore dello shale oil.
Ma la dimensione dei problemi è intuibile anche dalle polemiche seguite alla decisione dell’Epa (l’ente per la protezione ambientale, lo stesso che ha fatto esplodere lo scandalo Volkswagen) di abbassare i limiti “accettabili” la quantità di ozono nell’aria: da 75 a 70 parti per miliardo (ppb). Il vecchio limite era stato fissato ai tempi di Bush, sicuramente poco sensibile ai temi ambientali, e il fatto che non fosse mai stato abbassato era uno degli argomenti di critica “da sinistra” ad Obama. Le polemiche, dovrebbe essere inutile dirlo, provengono soprattutto dalle industrie, che dovrebbero a questo punto investire in meccanismi di contenimento delle emissioni al momento della produzione o sugli stessi prodotti: “Le aziende manifatturiere, soprattutto le più piccole, saranno costrette a decidere tra il rispetto della normativa Epa e l’assunzione di nuovi lavoratori”. Ma anche le associazioni ambientaliste sono deluse perché ritenevano che l’abbassamento dei limiti dovesse essere più drastico, a 60 parti per miliardo.
Tutta quest’orgia di dati negativi viene in queste settimane pubblicata un po’ dovunque per fare pressione sulla Federal Reserve, che ha annunciato un primo rialzo dei tassi di interesse entro la fine dell’anno (probabilmente in dicembre). Un rialzo dei tassi, ovvero l’aumento del costo del denaro, avrebbe effetti pesantemente negativi sull’economia reale Usa, ma probabilmente buoni su quello puramente finanziario, perché farebbe volare masse enormi di capitali liquidi dai paesi emergenti e dall’Europa verso gli Stati Uniti (cosa che peraltro sta avvenendo già da molte settimane, perché “i mercati” non attendono che le decisioni siano formalmente prese ma le “anticipano” per sfruttare anche pochi centesimi percentuali di guadagno).
E tra gli analisti c’è già chi smmette sul fatto che la Fed darà – sì – seguito al proprio annuncio che data ormai due anni, e quindi rialzerà di pochissimo i tassi di interesse. Ma già a primavera – questa la previsione – dovrà fare marcia indietro e ricominciare a preparare un nuovo ciclo di quantitative easing.
Tradotto: la crisi globale è sempre qui e l’unico modo di non tenerla minimamente sotto controllo è l’intervento delle principali banche centrali del pianeta, con iniezioni di liquidità di fatto illimitate. Ma vi sembra possibile “stampare denaro” all’infinito al solo scopo di mantenere ferma la situazione?
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