Finita l’epoca del Wto e della globalizzazione, è l’ora dei trattati transoceanici che tentano di cementificare blocchi economico-commerciali. Inevitabilmente, da subito o in prospettiva, in “competizione” feroce con tutti gli altri.
La firma apposta ieri ad Atlanta, in Georgia, al trattato Trans Pacific Partnership (Tpp) è un atto di guerra. Commerciale, per ora. Così come lo sarà, se verrà concluso un negoziato ancora più difficile, il Tras-Atlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) tra Stati Uniti ed Unione Europea.
Solo dodici i paesi aderenti: gli stessi Usa, Australia, Cile, Canada, Messico, Giappone, Nuova Zelanda, Malaysia, Vietnam, Brunei, Perù e Singapore. In pratica, Vietnam a parte, solo paesi anglofoni o “colonie” storiche degli Stati Uniti.
Inutile dire – lo scrivono tutti i giornali mainstream – che il “nemico” è esplicitamente la Cina.
Tra i grandi assenti si deve sottolineare l’assenza di un’altra storica “base” americana come la Corea del Sud, di cui stranamente non parla nessuno, pur vantando multinazionali di prima grandezza (Samsung. Hyundai, Lg, Ssanyong, Daewoo, ecc).
I contenuti dettagliati dell’accordo, circa 30 capitoli, saranno pubblicati solo tra qualche mese, dopo l’approvazione dei parlamenti dei paesi aderenti. E non sarà un processo scontato, a partire proprio dagli Stati Uniti, a causa non solo dell’opposizione repubblicana e di qualche parlamentare democratico (quelli più legati ai sindacati, timorosi della caduta dei salari derivante dalla libera circolazione di merci prodotte a costi inferiori), ma anche delle multinazionali statunitensi dell’automobile.
La prima a invitare esplicitamente il Congresso a respinere il trattato è stata la Ford. E non a caso proprio il settore auto (oltre al farmaceutico, e in generale la regolamentazione dei diritti sui brevetti) è stato tra i punti più ostici del negoziato, protrattosi al di là della scadenza prevista (domenica) a causa del braccio di ferro con il Giappone.
Le ragioni dell’ostilità di Ford (e più discretamente di general Motors e Fiat-Chrysler) riguardano ufficialmente la “manipolazione delle valute”, che non viene affrontata in nessun capitolo del Tpp. Fosse solo questo, non sarebbe in fondo un gran problema; le “svalutazioni competitive” possono agevolmente essere affrontate da un sistema produttivo che ha alle sue spalle la Federal reserve.
Ma il punto vero del contendere, in questo solo comparto, riguarda la “percentuale minima di valore” contenuto in un prodotto creata nel paese esportatore. Sembra complicato e in effetti un po’ lo è, perché è questione che investe la dimensione e l’estensione delle filiere produttive globali. In pratica, si trattava di stabilire la soglia al di sotto della quale un prodotto giapponese (o di qualunque altro paese aderente al Tpp) non può esser più considerato made in Japan (o altrove) perché contenente troppi componenti fabbricati in altri paesi, a più basso costo. E quindi da sottoporre a tariffe di importazione più o meno alte.
Nel trattato Nafta, cui aderiscono Usa, Canada e Messico, questa soglia minima è fissata al 62,5%, mentre nel Tpp il Giappone (unico tra gli aderenti a fare concorrenza alle auto Usa) ha strappato un molto più comodo 45%. Le auto nipponiche, che incorporano un alto numero di componenti fabbricati in Cina o in altri paesi asiatici, potranno perciò essere importate negli Usa, Canada e Australia (i principali mercati del Tpp per le quattro ruote) senza dover più esser caricate di tariffe doganali pesanti: solo il 2,5% per le auto propriamente dette, ma ben il 25% per i segmenti ad alto guadagno e alto gradimento su quei mercati, come suv, pickup e monovolume.
L’altro ostacolo rilevante è stato rappresentato dalla durata dei brevetti, soprattutto sui farmaci. Gli Usa avrebbero voluto ovviamente almeno dodici anni di “divieto” prima di consentire la fabbricazione di farmaci generici o equivalenti, mentre tutti gli altri paesi hanno premuto – con successo, a quanto pare, per ridurre questo periodo di monopolio a un intervallo variabile tra i 5 e gli 8 anni.
Discussioni che possono sembrare esoteriche, ma che definiscono una volta per tutte la possibilità di sfruttare commercialmente le scoperte scientifiche e le loro applicazioni tecnologiche. Ovvero, in questo caso, il periodo di tempo durante il quale si può conservare il “vantaggio competitivo” sui concorrenti.
Perché questo è il segreto vero di qualsiasi trattato commerciale o di qualsiasi unione monetaria tra paesi che presentano un livello di sviluppo differente: il vantaggio è sempre per il più forte. Per questo la propaganda – o, come si dice adesso, “la comunicazione” – gonfia fino all’inverosimile la storiella dei “vantaggi per tutti”. Chiedetelo ai messicani, se è vero…
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