Nei giorni scorsi la banca svizzera Credit Suisse ha pubblicato un suo preoccupato studio sulla “fine della globalizzazione”, provando a disegnare tre possibili scenari per l’evoluzione della situazione. Il più ottimistico – “la globalizzazione prosegue” – non è comunque rose e fiori, delineando di fatto una stagnazione senza infamia e senza lode.
Ciò significa che il dollaro continua ad assumere un ruolo di primus inter pares nel mondo delle divise, che in generale le multinazionali occidentali dominano il panorama commerciale globale, e che il tessuto giuridico e istituzionale internazionale è ancora di natura occidentale. In termini economici, la volatilità macroeconomica è bassa, il commercio è in crescita con qualche battuta d’arresto dovuta a interventi protezionistici, e l’economia di Internet cresce oltre i confini nazionali. Sul piano socio-politico, un’evoluzione significativa è rappresentata dal miglioramento dello sviluppo umano, con società più aperte.
C’è anche un falso evidente, un eccesso di ideologia liberal-liberista, perché appare decisamente fuori luogo – al nono anno di crisi economica globale, caratterizzato da pesanti arretramenti proprio sul terreno del miglioramento dello sviluppo umano addirittura nei suoi luoghi storici, l’Occidente appunto – riuscire a intravedere nel brene periodo società più aperte.
Fa niente, certe cose vengono dette e scritte in automatico, come quando i bambini recitano le preghiere alla lezione di catechismo.
Più interessanti, certamente, i numerosi “segnali” che spiegono verso i due scenari alternativi: un mondo più multipolare e l’inquietante fine della globalizzazione.
Il nostro terzo scenario è più negativo, pur se meno probabile, e ricorda il crollo della globalizzazione nel 1913 e il conseguente scoppio della Prima guerra mondiale. Nonostante il mondo sia stato colpito dalla crisi finanziaria globale e dagli attacchi terroristici negli ultimi anni, questi sviluppi hanno probabilmente accresciuto anziché ridotto la cooperazione tra le nazioni. Vi sono comunque rischi per la globalizzazione e in questa sezione li presenteremo sotto forma di una scorecard.
Fra le tendenze e gli sviluppi che analizziamo vi sono il rallentamento della crescita economica e degli scambi commerciali con in più la possibilità di uno shock macroeconomico (per indebitamento, disparità e immigrazione), un aumento del protezionismo, uno scontro geopolitico/militare tra grandi potenze, guerre valutarie, eventi climatici, l’ascesa di movimenti politici antiglobalizzazione ad ampia base e l’opposizione alle multinazionali, oppure un’inversione di tendenza nei processi di transizione alla democrazia.
Botte da orbi, insomma, in una rissa di tutti contro tutti. Uno scenario che andrebbe evitato, dunque, muovendosi con passi felpati nella ricostruzione di un “clima” internazionale meno teso e “più collaborativo”.
E invece cosa ti sta per combinare la Ue? Un esempio clamoroso di “aumento del protezionismo”, che ha per terreno di battaglia la produzione di acciaio.
Lunedì si riunisce il Consiglio Europeo per decidere se “concedere alla Cina lo status di economia di mercato”. Ci sarebbe da ridere se i problemi sottostanti non fossero al contrario molto seri. La riunione è stata chiesta dal governo inglese, il cui settore siderurgico è decisamente in crisi e teatro di pesanti licenziamenti. Ma è solo la punta dell’iceberg, come si dice, perché è tutta l’Europa ad aver fatto negli ultimi anni una durissima marcia indietro nel settore. Oggi nel Vecchio Continente viene prodotto solo il 10% della produzione mondiale di acciaio. Nel 2001 era il 22% e all’inizio della crisi, nel 2007, era il 16%. Si va insomma verso la totale scomparsa di un settore industriale considerato da sempre “strategico” (con l’acciaio di fanno le armi, le navi e gli aerei, oltre che tutto quanto serve per la vita civile) e che è stato un cuore pulsante dello sviluppo capitalistico occidentale.
Che relazione c’è tra la “concessione” alla Cina del riconoscimento di “economia di mercato” e difesa dell’acciaio europeo?
Semplice. Se si dice ok – come era stato deciso nel 2001, rinviando però la verifica al 2016 – i paesi europei produttori d’acciaio non potranno più elevare dazi alle importazioni cinesi di questa “materia prima lavorata”, quindi la concorrenza del Celeste Impero diventerà ancora più invincibile. Oltre al prezzo imbattibile, infatti, c’è stato in questo quindicennio un innalzamento continuo degli standard qualitativi dell’acciaio cinese, tanto da non temere più confronti con quello europeo (a parte alcuni “acciai speciali”, peraltro utilizzati in settori ancora più strategici e quindi di fatto militarizzati).
È abbastanza chiaro che non esiste più alcuna ragione politica per non riconoscere alla Cina quello status. Mentre ce ne sono di ottime sul piano industriale ed economico. La decisione è comunque politica e i paesi europei, in vista del Consiglio, sembrano orientati prevalentemente verso il “no”. Soprattutto quelli – come l’Italia e la Germania, oltre Francia e Gran Bretagna – che ancora producono acciaio. L’Italia, per esempio, invierà alla riunione Carlo Calenda, vice ministro dello Sviluppo economico, che negli ultimi mesi ha usato ogni occasione pubblica per ribadire un fermissimo “niet” a modifiche nella normativa vigente in materia. Supportato peraltro dalla lobby-associazione dei produttori europei – Aegis Europe – che si sentono minacciati di fallimento a breve.
Vedremo presto cosa verrà deciso. Ma ci sembra solare che una discussione del genere può avvenire solo se la globalizzazione è già finita. La motivazione portata avanti dai paesi produttori europei è infatti stantia quanto ridicola: “ le imprese cinesi godono di sussidi pubblici”. Guardiamo cosa ha fatto fin qui l’Italia con l’Ilva o la Germania con ThyssenKrupp: qualcuno può seriamente sostenere che l’aborrito “pubblico” non abbia fatto di tutto e di più per sostenere l’industria nazionale? Qualcuno può alzare il dito e dire “da noi le industrie dell’acciaio campano solo del loro fatturato”?
Dunque l’acciaio diventa occasione di guerra commerciale. Non certo per difendere l’occupazione (i nostri governanti europei raccomandano di licenziare a più non posso, per “flessibilizzare” il mercato del lavoro), ma “soltanto” per mantenere un margine di autonomia produttiva in un settore che non sembra subire le stesse dinamiche di altre merci. Inevitabile attendersi contromosse cinesi, sotto le mille forme che la diplomazia commerciale saprà individuare.
Dei tre scenari di Credit Suisse, dunque, il terzo sale rapidamente nella classifica delle possibilità.
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