L’hanno rimasto solo, ‘sti cornuti… Vien da parafrasare la fulminante battuta di Vittorio Gassman, ne I soliti ignoti, vedendo come nello spazio di un mattino il Centro Studi di Confindustria distrugga quasi tutto l’edificio retorico del governo Renzi sull’economia del paese lasciandolo solo a recitare la parte della vispa teresa ottimista.
Altro che “abbiamo rimesso in moto l’Italia”, gli studiosi di via dell’Astronomia constatano senza mezzi termini che «L’economia italiana, anziché accelerare sta rallentando». Tutto qui? No, perché il governo “toscano”, oltre a farsi i privatissimi affari di famiglia, ha esaudito ogni desiderio delle imprese italiane e ogni direttiva della Troika (Bce, Fmi, Unione Europea). Ma il risultato – a parte qualche mese di fiato garantito dall generosissimo quantitative easing della Bce – non si è materializzato, E non sanno capire neanche il perché: il «mancato decollo della ripartenza resta un vero rebus».
Il Csc confindustriale, diretto come sempre da Luca Paolazzi, constata che l’estate ha deluso ampiamente le attese, facendo registrare apunto un tasso di crescita molto inferiore al previsto, a punto da costringere a rivedere tutte le stime relative sia all’anno in corso che, soprattutto, al prossimo. Roba di zero virgola in meno, molto prudenziale, perché da quellle parti non sono abituati a spargere il panico tra i propri associati (le imprese italiae, anche se sempre di meno aderiscono a Confindustria per non dover rispettare i contratti nazionali di lavoro ancora in essere, sull’esempio di Marchionne). Ma comunque stime in ribasso: +0,8% per il 2015 (invece di + 0,9), +1,4 per l’anno prossimo (invece di 1,6) e addirittura un ancor più modesto +1,3 nel 2017. Segno che il futuro prossimo presenta incertezze enormi (basti pensare alle possibili conseguenze del rialzo dei tassi di interesse Usa sull’indebitamento in dollari dei paesi emergenti attualmente in crisi), difficili da quantificare esattamente ma abbastanza potenti da sconsigliare ottimismi fuori luogo.
Ancora più chiaro è il grafico che impietosamente accompagna l’analisi, da cui emrge un andamento così piatto da smentire visivamente ogni eufroia governativa. Per renderlo meno depressivo, il Csc ha addirittua aggiunto le curve degli indici della “fiducia” (che non sono un dato economico, ma solo un sondaggio a campione, dunque altamente influenzato dalla comunicazione governativa dominante) alle barrette infinitesimali che indicano le variazioni del Pil.
Più discorsivamene, Paolazzi ha provato ad attenuare il colpo psicologico elaborando delle spiegazioni ad hoc, appese con gli spilli: «l’uscita dalla seconda recessione, pur in un quadro esterno nettamente migliore che in passato, è stata più lenta rispetto alla risalita seguita alla fine della prima (tra 2008 e 2009)». Ma, «le ragioni per cui non si riesce a prendere il vento favorevole sono legate al fatto che ci sono comportamenti più prudenti, si tende a essere meno risoluti. C’è un tasso di risparmio molto basso, che è ai minimi storici. Per noi resta un mistero questo rallentamento. Pensiamo che nel corso di questo autunno ci sia una ripresa di slancio legata ai giudizi sugli ordini delle imprese che producono beni di consumo».
Ma appare decisamente strano che i consumi possano crescere davvero in un contesto di defazione salariale e precarietà contrattuale diffusa. Proprio il “basso tasso di risparmio” citato da Paolazzi, in effetti, sta lì ad indicare il fatto che i consumatori sono costretti a spendere quasi tutto il loro reddito corrente, senza poter accantonare quasi nulla, e che pertanto una spesa maggiore diventa altamente improbabile.
Al governo viene comunque lasciato un margine di manovra, almeno su terreno della comunicazione: «Noi rimaniamo convinti che l’economia italiana vada meglio di ciò che le statistiche dicono». Il che dovrebbe essere un problema serio per un direttore di centro studi, che di statistiche vive…
In palese contraddizione con una dinamica economica sonnolenta, il Csc vede in discesa il tasso di disoccupazione (dal 12% nel 2015 all’11,6% nel 2016). Il minimo che si possa dire è che si tratta evidentemente di “lavoretti” a bassissimo valore aggiunto (dalla ristorazione ai servizi alla persona, per esempio), altrimenti i 650mila posti di lavoro in più avrebbe avuto un impatto positivo ben più rilevante sul Pil.
Il resto, come sempre nei rapporti onnicompresivi, sono curiosità varie e wishful thinking. Come per esempio il calcolo astratto che attribuisce a un’auspicato dimezzamento dell’evasione fiscale il potere di far crescere il Pil addirittura del 3,1%. Naturalmente accompagnato dalla richiesta di ridurre drasticamente le tasse per le imprese “in chiaro”.
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