Comincia male il 2016 delle borse globali. L’elenco delle brutte notizie di fine anno era già talmente lungo da non aver bisogno anche del riaccendersi del conflitto tra Arabia Saudita e Iran (due colossi della produzione petrolifera, con conseguente aumento del 3% del prezzo internazionale del barile) e dell’ulteriore calo della produzione cinese.
A farne le spese è stata – per restare alle vicenducole di casa nostra – la Ferrari. Al suo primo giorno da debuttante a Milano ha visto ingloriosamente scedere la sua quotazione principesca sotto lo sguardo contrariato di Segio Marchionne, fresco di selfie con tale Renzi Matteo, da lui stesso e altri “amici” – come confessato oltre un anno fa – messo sulla poltrona di Palazzo Chigi.
All’origine della prima giornataccia dell’anno, dopo tre giorni di vacanza, l’economia cinese. L’attività manifatturiera a dicembre ha infatti segnato una contrazione per il decimo mese consecutivo, addirittura con un ritmo più veloce rispetto a novembre, raffreddando le speranze che la seconda economia mondiale inizi il 2016 all’insegna di una maggiore stabilità.
Questo ha dato il via a una serie di vendite da panico sulle piazze di Shenzen e Shangai tale da costringere le autorità di borsa a chiudere le contrattazioni. Le perdite sono state rispettivamente dell’8,2 e del 6,9%. La Banca centrale di Pechino, nelle stesse ore, ha nuovamente svalutato lo yuan fissandone la quotazione ai minimi da 4 anni e mezzo.
Una conseguenza monetaria interessante ha coinvolto il dollaro statunitense, che si è svalutato per la fuga degli investitori asiatici verso “monete rifugio” come il franco svizzero e lo yen giapponese, nonostante anche la borsa di Tokyo abbia chiuso in pesante passivo (-3%), così come tutte le altre borse asiatiche.
In questo quadro, le piazze europee si sono immediatamente allineate alla tendenza fortemente ribassista. La peggiore, alle 11, è non a caso Francoforte, che perde il 3,5%. Una grande quota delle esportazioni tedesche prende infatti la via della Cina, e se laggiù l’economia frena non c’è speranza di “crescita tedesca”. Tanto meno europea.
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