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Si grida al caos, dietro la porta

Noi marxisti siamo tacciati spessissimo di “catastrofismo” perché vediamo la crisi del capitalismo sempre in azione, anche quando il capitale va alla grande. Colpa in parte dei peggiori tra noi, quelli che non sanno fa altre che ripetere ad ogni occasione tre formule estrapolate da Marx, come se – invece di essere “leggi scientifiche” – in ogni luogo e in ogni momento potessero rappresentare la fotografia di quel che abbiamo sotto gli occhi (difetto di “analisi concreta della situazione concreta”, direbbe un altro che vi lasciamo indovinare).

Colpa però anche degli economisti mainstream, quelli che la crisi non l’ammettono neanche dopo che ha spianato mezzo mondo (tipo Giavazzi e Alesina, per non andare troppo lontani), solo perché nelle loro beneamate teorie i mercati tendono sempre all’equilibrio e quindi la crisi non esiste oppure è conseguenza di un errore commesso dai “regolatori” (“la politica”, le banche centrali, ecc, mai il capitale stesso).

Sta di fatto, però, che in questi primi giorni del nuovo anno, gli annunci catastrofisti si vanno moltiplicando, come accade a chi – un’altra botta del genere – proprio non se l’aspettava. E dire che ce ne voleva, per essere ottimisti a tutti i costi, dopo otto anni di crisi-stagnazione-deflazione-austerità-recessione a trimestri alterni.

Qualcuno ha scoperto che il prezzo del petrolio così basso (meno di 28 dollari al barile, venerdì, e poco sopra i 29 stamattina) è più un problema che non una soluzione. È vero infatti che l’energia a basso costo consentirebbe di produrre più, ma allo stesso tempo si vanno distruggendo posti di lavoro (in tutto il settore dello shale oil statunitense, che ha in genere un break even al di sopra dei 50 dollari al barile), si creano crisi nei paesi produttori (persino l’Arabia Saudita è stata costretta a varare una legge di bilancio statale improntata all’austerità, con “sacrifici”, tagli alla spesa pubblica e aumento delle tariffe) e dunque si penalizzano le esportazioni tanto nei paesi di vecchia industrializzazione (che contavano di vendere agli “emergenti” comprimendo il costo del lavoro e i diritti in casa propria) quanto nelle nuove manifatture mondiali (Cina, Thailandia, Vietnam, ecc), che improvvisamente vedono rallentare la domanda per le proprie merci a basso costo. Senza contare l’esposizione finanziaria di quanti hanno prestato denaro alle società dello shale oppure ai paesi emergenti ora in crisi.

Altri scrutano nelle curve della crisi di borsa cinese, scoprendo che quelle curve impazzite, all’ingiù e – più raramente – all’insù, seguono lo stesso ritmo e l’identica ampiezza di quelle della crisi del 1929. Le “onde di Elliott”, dimenticano di ricordare, erano esattamente dello stesso tipo anche nel 2008, all’inizio di questa crisi che non passa mai. Suggestioni grafiche, certo, ma fotografie di andamenti tutt’altro che normali.

Sono tempi per i guru, questi. E Repubblica si ricorda di Nouriel Roubini, “mr. Doom”, docente alla New York University, uno dei pochi che seppe leggere dentro la crisi del 2008 e prevedere qualcosa che poi è effettivamente avvenuto. La sua ricetta per evitare il crollo da qui a pochissime settimane è tanto semplice quanto difficile da realizzare: un accordo globale tra tutte le principali banche centrali del pianeta per garantire un quantitative easing permanente (o comunque di imprevedibile durata). Non si può restare fermi. Le autorità fiscali e monetarie dei principali Paesi dovrebbero subito assumere un’iniziativa forte e proattiva. Altrimenti il crollo dei mercati, che trascinano l’economia reale, non si ferma. La Fed dovrebbe interrompere i rialzi, la Bce potenziare il quantitative easing e altrettanto la Bank of Japan, la Banca centrale cinese imbracciare con maggior decisione la strada dello stimolo monetario“.

È bene ricordare che la Federal Reserve, poco prima di Natale, ha fatto esattamente il contrario, mettendo probabilmente in moto – ma nessuno lo ammetterà mai – un’onda che va crescendo di giorno in giorno. In parole povere, l’economia globale – al di là di qualche zero virgola in più o meno in questo o quel paese (Cina e India a parte, seppur con molto meno vigore di prima) – non è riuscita a ripartire neanche con sei anni di denaro a costo zero, di salari congelati in tutti i paesi industrializzati, welfare saccheggiati ovunque e due di petrolio in calo precipitoso.

Difficile credere che Janet Yellen e gli altri componenti del direttivo della Fed potranno fare marcia indietro. Al massimo rallenteranno, al limite dell’annullamento, i prossimi e programmati innalzamenti dei tassi.

Quindi il mondo globalizzato, ma in via di frammentazione tra aree grandi e piccole in competizione feroce, resta privo di un “governo” purchessia, foss’anche soltanto monetario. Del resto ohni potere politico (anche quello delle banche centrali più grandi) è solo nazionale, o semicontinentale; mentre i mercatii, soprattutto finanziari, circolano liberamente ovunque alla velocità di un click. Nessun “governo dela situazione”, in queste condizioni, è possibile.

Una prospettiva così preoccupante da indurre gli analisti di Royal Bank of Scotland a diramare una circolare interna di questo tenore: “Vendete tutto, a parte i titoli sicuri come i buoni del tesoro più affidabili”. Sembra di guardare Margin Call, fenomenale film sulla caduta di Lehmann Brothers e il crollo dei mercati successivo. Solo che è tutto vero, di nuovo, solo otto anni dopo e senza che, nel frattempo, sia stato raggiunto uno qualsiasi degli obiettivi che banche centrali, leader mondiali, istituti “troppo grandi per fallire” avevano indicato come indispensabili per mettere in sicurezza i mercati.

Il problema chiave è in fondo semplice: tutto può essere prodotto a un costo bassissimo, tale da spazzar via in un attimo produttori – imprese, filiere, interi paesi – che fin qui erano stati trainanti. Ma le stesse ragioni che hanno portato i prezzi di qualsiasi merce sono al limite dell’azzeramento del profitto (bassi salari, materie prime abbondanti e cheap, piattaforme di vendita informatiche potenzialmente globali) sono anche quelle che hanno strozzato la domanda globale. Chi compra, se tutti hanno un margine (salariale, prima di tutto) azzerato?

Nessuno. Non è una risposta scontata. È semplicemente l’unica.

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Qui di seguito l’articolo cone cui Fabrizio Galimberti, su IlSole24Ore, scopre l’”orrende verità”. Fino ad immaginare l’indicibile: “spesa pubblica finanziata con creazione di moneta”. Il contrario di quanto si è fatto, ovunque, finora. Spesa pubblica di tutti i paesi, ognuno per conto suo, in concorrenza con tutti gli altri.

Come negli anni ’30. Non c’è novità, solo ripetizione su scala infinitamente maggiore. Sapete dire come finì, allora?

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Internet, il petrolio e l’inflazione zero virgola

di Fabrizio Galimberti

Nel 1996 un economista inglese, Roger Bootle, pubblicò un libro, dal titolo macabro ma intrigante: The death of inflation, La morte dell’inflazione. Prontamente tradotto lo stesso anno dal Sole 24 Ore Libri (con un titolo un po’ meno luttuoso, «La fine dell’inflazione»), si è rivelato una delle opere più profetiche degli ultimi decenni. Proiettava inflazione bassa, se non zero, per sempre, e tassi di interesse egualmente schiacciati. Vale la pena guardare ancora ai motivi profondi di quelle (corrette) previsioni, specie adesso che il prezzo del petrolio basso sta trascinando ancora più giù il tasso di aumento dei prezzi. Il che fa pensare: se il petrolio risale, risalirà anche l’inflazione?

No, non risalirà, o almeno non risalirà ai livelli che sono scolpiti nei nostri circuiti mentali e hanno prevalso nel dopoguerra. Un dopoguerra che ha visto un aumento strisciante del tasso di inflazione, che in molti Paesi (incluso il nostro) e non solo per le crisi petrolifere, ha raggiunto punte del 20 per cento. Ma prima di guardare alle cause fondamentali della bassa inflazione, facciamo una semplice osservazione. Oggi il petrolio è sui 30 dollari al barile e l’inflazione è sotto l’1% sia in Europa che in America. Ma nella primavera del 2014, quando il greggio quotava più di 100 dollari al barile, l’inflazione era all’incirca eguale in Europa e in Italia (meno dell’1%) e solo del 2% negli Usa.

Quali sono allora le cause di fondo che ci hanno fatto entrare in un’era di bassa inflazione? Le pressioni sui prezzi vengono da due “poteri”: il potere dei produttori nel fissare i prezzi stessi e il potere dei lavoratori nel fissare i salari (la componente principale dei prezzi). Ambedue questi poteri sono oggi erosi dalla globalizzazione e dalle tecnologie.

Da quando, alla fine degli anni 80, la “forza di lavoro di mercato” raddoppiò nel mondo con l’ingresso di miliardi di persone da Cina, India e Russia (tre popolosi Paesi, con ricche eredità culturali, che andavano scrollandosi di dosso lo statalismo), questa immensa riserva di manodopera era in grado di usare le nuove tecnologie per produrre quasi qualsiasi cosa a costi contenuti.

Questo epocale sommovimento portò a pressioni al ribasso sui salari dei Paesi avanzati. I sindacati persero potere, e non solo per l’avvento nell’arena del mercato di lavoratori a basso costo. Anche perché le tecnologie, dall’informatica alle telecomunicazioni, permettevano di usare meno lavoro. A questa perdita di potere dei lavoratori si aggiunse quella dei produttori: un’impresa di rubinetti della Val Trompia deve sempre fare i conti col fatto che, in questo “maledetto” mondo globalizzato, c’è sempre da qualche parte un “dannato” produttore che può fabbricare un rubinetto con lavoro a basso costo. A questa perdita di potere dal lato dei protagonisti dell’offerta – lavoro e imprenditorialità – si aggiunge un aumento di potere dei consumatori. Un potere che in questo caso contribuisce a schiacciare i prezzi e toglie altro potere ai produttori: grazie a internet e al commercio online i consumatori possono passare in rassegna, seduti davanti al pc, tutte le offerte del mondo e trovare la più conveniente.

Questi fattori di fondo sono qui e rimarranno, quale che sia il prezzo del petrolio. Di per sè, questi sviluppi sono positivi per l’economia mondiale, ma c’è il problema della transizione: la transizione, per i produttori minacciati, verso segmenti di valore aggiunto più elevati. Non è una transizione facile e deve essere lubrificata da una rete di sicurezza efficiente, con misure attive e passive di sostegno al lavoro. E poi, i prodigi della telematica creano, e non solo distruggono, posti di lavoro.

Cosa può fare la politica economica? È commovente vedere come i banchieri centrali, nel cui dna si pensava iscritto per sempre il gene della lotta all’inflazione, cercano oggi, come un sol uomo, di spingere verso l’alto – e l’obiettivo del 2% è alto rispetto ai livelli di oggi – il tasso di aumento dei prezzi. Riusciranno i nostri eroi? L’espansione quantitativa della moneta basterà? Il problema è che non basta creare liquidità, bisogna che questa venga spesa per risollevare la domanda e creare inflazione. Se gli “spiriti animali” di famiglie e imprese non si riprendono, bisognerà fare altre cose: politiche di bilancio espansive, fino, forse, a quello che per alcuni è un “Sacro calice” e per altri un “vaso di Pandora”: spesa pubblica finanziata con creazione di moneta.

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