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Il petrolio shale come i rifiuti: si paga per darlo via

Quanto può reggere lo shale oil americano a questa stagione di prezzi bassi? Osannato come la rivoluzione che liberava gli Stati Uniti dalla dipendenza energetica, come il futuro dell’abbondanza (gli esperti sanno che non è affatto vero), il petrolio estratto con la tecnica del fracking (fratturazione idraulica del terrreno, un disastro ambientale pagato un patrimonio) ha preso piede con i prezzi stabilmente sopra i 100 dollari al barile. Con un costo medio di estrazione oscillante tra i 50 e gli 80 dollari, poteva essere conveniente. Ovvero produrre profitto.

Grandi investimenti a debito, finanziati allegramente dalla speculazione soprattutto statunitense, e via con l’estrazione. Soldi che non potranno essere restituiti, con ovvii problemi per i prestatori…

Neanche il tempo di festeggiare il neonato – in campo petrolifero – che ecco l’Arabia Saudita rompere il cartello Opec e pompare quantità di greggio che solo lei si può attualmente permettere. Una punizione pensata per colpire lo shale ma anche il nemico sciita (l’Iran) e la Russia, ma che ha colpito come un boomerang le stesse finanze saudite (persi 100 miliardi di riserve monetarie, varata la prima legge di bilancio in regime di austerity).

Ma i primi risultati comincano ad arrivare. Lo shale è un settore che sforna petrolio di pessima qualità, “distillato” letteralmente dalla frantumazione delle rocce o delle sabbie bituminose. Un disastro per chi deve raffinarlo, che ovviamente deprime il prezzo di questa specifica qualità ben oltre i limiti del mercato normale (con l’ottimo Brent e il meno pregiato Wti a fare da riferimento globale, ancor più del “paniere Opec” che contiene tipologie ancora inferiori).

Per la prima volta questo prezzo è precipitato in “territorio negativo”. In pratica i produttori del North Dakota, lo stato del Middle West che ha fatto da apripista per lo shale, si vedono oggi chiedere 50 centesimi al barile come prezzo per portarsi via il prodotto (qualità Norh Dakota Sour, una fetenzia piena di zolfo prodotta in piccolissime quantità). Di fatto, come un rifiuto da smaltire. Molto inquinante, peraltro.

Naturalmente gli acquirenti non lo butterano nei fiumi né in mare; lo porteranno in raffineria come sempre, ma guadagneranno appena il costo del trasporto o poco più.

Il North Dakota Sour, riferiscono fonti specializzate, costava qualche mese fa appena 13,50 dollari barile, mentre due fa era addirittura a 47,60.

Quanto può reggere una società che lavora per non vendere, dovendo addirittura aggiungere un costo per smaltire la “produzione”?

Il caso di questa qualità del North Dakota, come sempre, è solo la spia di un crollo generalizzato nel settore; una spia particolarmente violenta, perché infrange tutte le leggi del capitalismo, ma tutte le altre qualità dello shale stanno pericolosamente avvicinandosi a questo limite. Il South Texas Sour e l’Oklahoma Sour, altri due greggi solforosi, si vendono a poco più di 13 dollari, quando ne servono tra i 50 e i 60 per estrarli. Il Western Canadian Select, che fa da riferimento per lo shale canadese, vale oggi meno di 15 dollari (due anni fa si vendeva a più di 80).

Una strage annunciata, che comincia a macinare fallimenti.

Deve essere per questo che il Brent, sceso ieri al di sotto dei 28 dollari al barile, stamattina è schizzato verso la soglia dei 30. C’è abbondanza di offerta, certo, ma per la maggior parte è materiale difficile da lavorare e chi lo produce sta per chiudere baracca. Il prezzo della roba buona, perciò, potrebbe anche risalire. Se solo non fossero state tolte le sanzioni all’Iram – maledicono i sauditi – poteva persino accadere sul serio….

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