Si fa presto a dire “bisogna rispettare le regole”. Se le regolesono sbagliate, o meglio ancora “distorsive”, insomma pensate apposta per favorire qualcuno e danneggiare altri, il rispetto dele regole è comportamento suicida, non “virtuoso”.
Quasi tutti i trattati dell’Unione Europea hanno questa caratteristica fondamentale, e si spiega facilmente come mai – anche se ogni paese avesse rispettato al millimetro le mitiche “regole” – alcuni ci hanno guadagnato moltissimo e altri hanno perso tutto o sono lì lì per perderlo.
Ma in questi giorni è tutto l’establishment economico italiano a chiedere di cambiare alcune di queste regole, palesemente dannose. E si capisce dunque perché Renzi il fregoli abbia adottato un atteggiamente “eurocritico”, un po’ rompiscatole, un po’ gradasso de noantri, nei confronti della Commissione Ue.
La nuova regola che proprio non va giù al capitalismo italiano – o quel che ne è rimasto – si chiama bail in, il salvataggio interno, per le banche in grave difficoltà con i bilanci. È il contrario del bail out, il salvataggio con denaro pubblico, fin qui tollerato e ammesso in qualsiasi continente (altrimenti i sistemi bancari statunitense, britannico, tedesco e francese sarebbero scomparsi già nel biennio 2008-2009). Un dispositivo fin qui odiato soprattutto da azionisti o obbligazionisti involontari – come ben sanno i clienti truffati da Banca Etruria – ma che nasconde problemi sistemici di ben altra consistenza e che ha moltiplicato, nelle settimane di turbolenza borsistica di questo inizio d’anno, gli effetti depressivi proprio sulle banche. La verifica è facilissima: il comparto che è diventato più “volatile, con oscillazioni folli in basso o in alto, è proprio quello bancario. La borsa più scizofrenica è quella di Milano, dove le banche rappresentano – caso pressoché unico in Europa e nel mondo – il 40% della capitalizzazione totale.
Perché il bail in ammazza le banche, e soprattutto quelle italiane? In primo luogo perché quelle italiane non erano state salvate con denaro pubblico negli anni scorsi, al contrario dei concorrenti europei e statunitensi. Non era stato necessario (tranne alcuni casi limitati, come MontePaschi), per un motivo banale: gli istituti di credito italiani sono meno internazionalizzati ed anche molto meno esposti nei confronti del mercato dei prodotti derivati di assai incerto valore, al centro della bufera finanziaria che soffia dal 2007.
Quindi molte banche europee, negli anni scorsi, erano state risanate con fiumi di denaro pubblico, sollevando anche comprensibili ostilità nelle popolazioni chiamate a pagare – in tasse, tariffe e sacrifici – per le follie dei banchieri. Quelle italiche, più “viruose” su quel fronte, si trascinavano però notevoli “sofferenze”, ossia crediti concessi a famiglie e imprese che fanno fatica a rientrare o che – a causa della crisi dell’economia reale – che non rietreranno certamente mai.
Per alcune di queste banche, quelle gestite in modo più clientelare o fraudolento (è il caso appunto di Banca Etruria, con buona pace della signorina Boschi), si è così arrivati al redde rationem proprio nel momento in cui l’Unione Europea cambiava le regole imponendo il bail in.
Se la congiuntura economica globale fosse “normale” soffrirebbero probabilmente meno. Ma che significa congiuntura normale? Una congiuntura in cui i tassi di interesse sono sopra lo zero; o comunque una in cui i tassi a breve termine sono inferiori a quelli a lungo termine (10 anni o più). Una banca commerciale classica, infatti, raccoglie denaro a breve e fa prestiti a lungo, guadagnando sulla differenza. Ma se i tassi, come sta avvenendo da qualche anno grazie ai quantitative easing delle principali autorità monetarie del mondo, vanno sotto zero e non esiste più una differenza apprezzabile tra breve e lungo termine, ecco che il margine di guadagno delle banche “normali” va a ramengo.
Ma se la reddività delle banche diventa incerta, ecco che gli investitori di borsa cominciano a vendere i titoli bancari, soprattutto quelli che hanno più “sofferenze” nei bilanci. Creando così un effetto domino perverso per cui le difficoltà si moltiplicano a dismisura.
Si può pensare: ma che ce ne frega a noi se le banche falliscono? Ben gli sta, a quegli avvoltoi e ladri!
Giusto, certamente. Il problema non è morale, però. In un sistema “bancocentrico” come quello italiano un evento del genere produce effetti a cascata: le banche premono sui clienti perché riducano al più presto la loro esposizione, rimoborsando i prestiti; congelano la già scarsa erogazione per investimenti; si fondono tra loro licenziando orde di impiegati, ecc.
La deflazione insomma si propaga come una metastasi cancerogena, con alcuni interessanti ma solo apparenti paradossi. Per favorire il ritorno dell’inflazione, infatti, la Bce (e la Bank of Japan, forse anche la Fed, ritornando clamorosamente sulle sue recenti decisioni), promette di espandere la sua politica di allentamento monetario, portando – se necessario – i tassi di interesse in territorio negativo (l’ha fatto l’altro giorno la Banca centrale svedese, decidendo per un tasso al -0,50%). Questo dovrebbe permettere di far circolare di più il denaro, favorendo i prestiti e dunque l’espansione dell’economia reale, che dovrebbe godere del contemporaneo prezzo stracciato del petrolio. Ma accade l’esatto opposto: gli investitori – industriali o finanziari – non vedono possibilità di rilancio, quindi non ritengono opportuno investire sapendo che non gudagneranno nulla o addirittura produrranno in perdita. La concorrenza spinge i tassi di interesse ancora più in basso e quindi le misure monetarie che avrebbero dovuto creare espansione finiscono per generare paralisi.
Un keynesiano classico direbbe: invece di buttare tutto quel denaro verso le banche e “l’offerta”, usatelo invece per stimolare la domanda, alzando i salari e consentendo ai governi di investire in deficit. Così “la gente” torna a comprare, le industrie a produrre, lo Stato a incassare tasse.
Non avviene, non può avvenire. Servirebbe uno Stato mondiale, con un governo unico non eterodiretto dalle imprese e dalla finanza globale, orientato alla soddisfazione dei bisogni sociali e dell’equilibrio redistributivo. Un’eresia quanto il comunismo, insomma.
Così, a livello nazionale, Confindustria e Abi (l’associazione di categoria dei banchieri) si limitano a chiedere qualcosa di più alla portata: abolire quanto prima la regola del bail in. Non servirà a rilanciare l’economia, certo. Ma almeno salverebbe il fatiscente sistama bancario italico.
Se questo è il massimo della visione complessiva della borghesia nazionale, non c’è futuro.
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