Gli amici di Renzi fiutano gli affari come segugi e poi li chiamano “Start up”. Questa volta si tratta dei brevetti per i farmaci dalla ricerca universitaria attraverso una società: la K Cube. La K Cube, è una start up ovviamente basata a Firenze che si occupa di investimento in progetti di ricerca in settori tecnologici con possibili applicazioni produttive e nei servizi, con particolare interesse nel settore farmaceutico e nelle nuove tecnologie in campo biomedicale. Dietro i paraventi della società troviamo il tentacolare affarista Marco Carrai, sodale di Renzi e presidente del cda della K Cube, una società che si è inserita per sfruttare i brevetti usciti dai ricercatori della Sapienza a Roma. Ma troviamo anche Flavio Maffeis, vicepresidente della Farbanca, del Gruppo Banca popolare di Vicenza, ma soprattutto ex CEO della multinazionale farmaceutica Glaxo, arrestato nel 1993 e patteggiante nel 1997 per il reato di corruzione. Nel cda Kcube si trovano anche il presidente della fondazione Open Alberto Bianchi. il Consiglio direttivo della Fondazione, in carica fino all’approvazione del bilancio esercizio 2017, è composto da: Alberto Bianchi (Presidente), il ministro Maria Elena Boschi (Segretario generale), Marco Carrai e Luca Lotti. Revisore unico della stessa è il dott. Marco Fazzini. Nel Cda della Kcube siede poi il tributarista Tommaso Di Tanno, rinviato a giudizio per la vicenda MPS.
Fin qui è solo un elenco di uomini d’affari vicini al premier Renzi, alcuni dei quali finiti in una interpellanza parlamentare del M5S a proposito delle banche. Il problema è che il 16 giugno del 2015, è stato firmato un contratto tra l’università di Roma La Sapienza e la società Kcube nel quale si dichiara testualmente che “Alla luce di quanto sopra, compatibilmente con la normativa vigente, con i regolamenti interni di Ateneo ed in coerenza con i fini istituzionali relativi alle attività di trasferimento tecnologico, valorizzazione dei risultati della ricerca e promozione dell’imprenditoria accademica, Sapienza consentirà a K Cube, senza alcun vincolo di esclusiva e nei termini previsti dall’accordo in questione, di visionare il proprio portafoglio brevetti, i progetti e le ricerche potenzialmente suscettibili di valorizzazione economica. Conseguentemente detta Società, secondo quanto sopra descritto, potrà avviare il processo di sviluppo e commercializzazione di tali prodotti della ricerca anche attraverso la costituzione o l’acquisizione di start up innovative. Tale accordo ha una durata di nove anni e non presenta oneri per Sapienza”. Dunque niente oneri per l’università pubblica. Ma gli onori o i ritorni sul piano ecoonomico? Leggiamo sempre dal contratto che “La Sapienza in qualità di Associato, parteciperà al profitto conseguito da K Cube con una quota che potrà arrivare fino al 7,3% del relativo utile (lo “Utile Attribuibile”).
Se la parole del contratto non ci ingannano significa senza oneri per l’università pubblica ma anche lievissimi proventi derivanti dalle attività di ricerca sviluppate nel principale ateneo romano. Sempre se le parole non ci ingannano, il processo di commercializzazione e valorizzazione economica viene consegnato ad una impresa privata – la K Cube. In pratica i ricercatori della Sapienza dovrebbero limitarsi a portare l’acqua con le orecchie ad un soggetto privato che metterà a frutto – sul piano economico – i risultati delle loro ricerche. Il rapporto pubblico-privato dunque funziona così? Possibile che dentro l’ateneo romano nessuno, dai docenti ai ricercatori agli studenti, trovi nulla da ridire su una procedura di privatizzazione de facto che sottrae risorse alla ricerca pubblica e le serve su un piatto d’argento ai privati? Alcuni mesi aveva suscitato polemiche (ma anche cariche della polizia, arresti e condanne per gli studenti) la consegna ai privati dell’ateneo La Sapienza per la rassegna Maker Fare. Stavolta ci sembra anche peggio.
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