L'area più esposta risulta essere ancora il Meridione, dove secondo la Caritas, gli italiani che si rivolgono ai suoi centri sono più numerosi degli immigrati. Quasi la metà dei residenti nel Sud del paese risulta a rischio povertà o esclusione sociale. L’Istat stima che nel 2015 la percentuale di esposizione nell'Italia meridionale è pari al 46,4%, in rialzo sul 2014 (45,6%) e notevolmente maggiore rispetto alla media nazionale (28,7%). Al Centro, infatti, la percentuale di abitanti poveri o impoveriti si ferma al 24% e al Nord al 17,4%.
Nella graduatoria delle disuguaglianze sociali nei paesi dell'Unione Europea (misurate con il famoso indice di Gini), l'Istat segnala che “l’Italia occupa la sedicesima posizione assieme al Regno Unito”. Distribuzioni del reddito più diseguali rispetto all'Italia si rilevano non certo casualmente negli altri paesi dell'area euromediterranea quali Cipro (0,336), Portogallo (0,340), Grecia (0,342) e Spagna (0,346). In Italia l'indice di Gini è più elevato nel Sud e nelle Isole (0,334) rispetto al Centro (0,311) e al Nord (0,293).
In Italia il 20% più ricco delle famiglie percepisce il 37,3% del reddito equivalente totale, il 20% più povero solo il 7,7%. La stima dell'Istat a valere sui dati 2014 rileva che la crisi ha accentuato le disuguaglianze, infatti dal 2009 al 2014 il reddito in termini reali cala più per le famiglie appartenenti al 20% più povero, ampliando la distanza dalle famiglie più ricche il cui reddito passa da 4,6 a 4,9 volte quello delle più povere, quelle che si trovano almeno in una delle seguenti condizioni: rischio di poverta', grave deprivazione materiale, bassa intensita' di lavoro.
Quello che l'Istat non può rilevare è il rapporto tra aumento della povertà e condizioni di lavoro. Niente affatto paradossalmente, i nuovi poveri non sono disoccupati, anzi lavorano, ma hanno salari talmente bassi da relegarli nella fascia della povertà. Il boom dei working poors è stato perseguito sistematicamente dai governi europei in questi anni. Mandato in soffitta il modello sociale europeo, l'ordoliberismo tedesco si è imposto nell'Eurozona, sancendo una realtà per cui i salari dovevano diminuire anche a fronte di una giornata lavorativa sociale che è andata aumentando. L'impennata della crisi dal 2008 ha funzionato come occasione “costituente” per andare all'assalto dei salari in tutte le loro forme: diretti, indiretti, differiti.
Il fenomeno non è solo un caso italiano. Come riportavamo alcuni giorni fa sul nostro giornale, citando un rapporto del Social Justice Index pubblicato da Der Spiegel, la povertà nell'Unione Europea investe ormai 118 milioni di persone su 500 milioni di abitanti. Indicativo che proprio quel rapporto sottolinei come “le ragioni vanno ricercate in particolare nella crescita dei settori a basso salario”. “Una crescente percentuale di persone alle quali non basta un lavoro per vivere è qualcosa che mina l’intera legittimità del nostro ordine economico e sociale”, ha dichiarato il Presidente della Fondazione che ha curato il rapporto. A livello europeo siamo dunque ad una percentuale di poveri – e di lavoratori poveri – non dissimile da quella dell'Italia. Ma, come abbiamo visto, la media europea diventa fortemente asimmetrica, perchè nei paesi PIGS (quelli euromediterranei) la percentuale schizza verso l'alto.
E' evidente a questo punto come le ipotesi di conflitto e cambiamento che vedono i paesi dell'area euromediterranea come base sociale e materiale, trovano conferma ancora una volta. La rottura dell'Unione Europea e la fuoriuscita dall'Eurozona, diventano la conditio sine qua non per qualsiasi ragionamento e progetto di alternativa. Alla luce del risultato del No “sociale” nel referendum sulla controriforma costituzionale, prima si comprende la connessione tra questi dati, meglio è.
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