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Mors tua, vita mea. La guerra sotto le “regole” dell’Unione Europea

MontePaschi come prova conclamata di come funziona l'Unione Europea. La retorica brussellese straparla di regole contro lassismo, di formiche contro cicale, di virtù nordiche e fannullismo mediterraneo. Gli europeisti italici, neoliberisti senza se e senza ma quando si tratta di diritti del lavoro (ineguagliabile per infamia resta Pietro Ichino, ma la folla degli opinionisti da strapazzo è assai folta), rimangono senza parole di fronte al possibile fallimento della banca più massonica del paese (e ce ne vuole…), riscoprendo improvvisamente la giustezza dell'intervento dello Stato nell'economia. Purché, va da sé, sia temporaneo e limitato alle banche. Finito il salvataggio, e bruciati miliardi di soldi pubblici (tasse nostre, insomma), si tolga dai piedi e restituisca tutto ai privati. Che sono stati così bravi, ma così bravi, da prendere il primo responsabile del tracollo senese, l'ormai ex amministratore delegato di Mps, e nominarlo presidente dell'Abi, ovvero il migliore dei banchieri italiani…

Dei quotidiani mainstrea, lo ripetiamo spesso, IlSole24re è l'unico che sia costretto a scrivere come stanno le cose quando le cose vanno male. Questione di proprietà e pubblico: organo di Confindustria, deve informare soprattutto gli investitori; dunque deve dare un quadro obbiettivo della situazione.

L'analisi che qui sotto riportiamo, però permette di illuminare non solo la miseria dell'imprenditoria bancaria nazionale, ma anche e soprattutto il ruolo delle sempre venerate “istituzioni europee”. La chiave di lettura proposta dai due estensori del pezzo è ovviamente critica ma dialogante: di fatto, gli interventi della Vigilanza della Bce nella gestione della vicenda Montepaschi ha provocato più disastri del necessario.

Una lettura più attenta, però, fa intravedere nella Vigilanza uno strumento di guerra interna all'Unione Europea. Uno dei tanti, non certo l'unico.

Insomma, sotto il velo beneducato delle “regole da rispettare” si gioca una violentissima partita per decidere chi – nella pletora di banche, imprese, industrie, ecc – deve morire e chi deve sopravvivere.

Per esempio, vengono citati gli stress test cui vengono ciclicamente sottoposte le banche. In teoria un modo di prevedere la loro tenuta in casi di crisi estrema. Una buona cosa, insomma. Ma quali sono i criteri su cui si tengono? E chi li ha scelti)

E' risaputo che nella definizione dei criteri è stato deciso di attribuire un alto punteggio negativo alle “sofferenze” – crediti erogati, la cui restituzione è difficile se non impossibile – mentre l'esposizione verso i prodotti finanziari derivati (quasi sempre trattati in modo semiclandestino, over the counter, ossia fuori dai mercati regolati) è tenuta in non cale. In questo modo le banche italiane (più “tradizionali”, ancorché gestite da cani, con erogazione facile di crediti miliardari verso i “soliti noti”) risultano sempre abbastanza fragili, mentre quelle tedesche – in primo luogo la più grande, Deutsche Bank, sempre al centro di scandali, manipolazioni di mercato, multe miliardarie, ecc – figurano le prime della classe. Ultrasicure, in buona salute, un esempio di buona gestione.

Lo scarto tra i giudizi della Bce o dell'Eba e quelli del mercato finanziario non potrebbe essere più violento: la quotazione di Deutsche Bank, infatti, che aveva sfiorato i 40 euro a gennaio 2014, ora vale soltanto 17 euro (una perdita di quasi il 60%). Ma guardando il grafico si nota che nel luglio di quest'anno era addirittura arriva a 11 euro (-75%), in coincidenza del voto sulla Brexit. Solo negli ultimi mesi, in coincidenza con gli scossono subiti dal sistema bancario italiano proprio a causa della vicenda MontePaschi, il titolo tedesco ha ripreso un po' di quota.

Le “regole”, insomma, sono una strumento di selezione politicamente mirata, per nulla asettiche e tantomeo “oggettive”. Sono state imposte grazie alla potenza economica altrui e all'incompetenza dei vertici politici “nostrani”. Ricorderemo sempre il Romano Prodi che presentava così il futuro con l'euro: Con l’euro lavoreremo un giorno in meno e guadagneremo come se lavorassimo un giorno in più”. Mentre un economista liberista normale come Éric Toissent, qualche temo dopo, chiudeva così la questione: Con l’euro è stato come mettere su di un ring un peso massimo come l’ex campione del mondo Cassius Clay contro un dilettante peso piuma”.

Chi ora si lamenta delle “stranezze” della Vigilanza europea, farebbe bene a chiarirsi le idee…

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Le colpe di Mps, la linea dura della Bce: così la crisi è diventata ingestibile

Marco Ferrando – Morya Longo

È passato poco più di un decennio da quando la Banca d’Italia di Antonio Fazio, in nome della stabilità, gestiva le crisi bancarie dietro le quinte mettendo troppo spesso la polvere sotto il tappeto. Eppure sembra trascorso un secolo. Oggi l’approccio calvinista della nuova Vigilanza, in capo alla divisione della Bce guidata da Danièle Nouy, è diametralmente opposto: da “flessibilità” e riservatezza, si è passati a rigidità e pubblicità. Senza preoccuparsi delle conseguenze. Il caso del Montepaschi lo dimostra: la banca senese ha mille problemi, nessuno lo nega, ma la Bce ha avuto un ruolo determinante nel rendere questi problemi ingestibili. E nel creare un effetto a catena in tutto il sistema bancario italiano

Lungi dal rimpiangere l’epoca di Fazio, ma i fatti parlano chiaro. In questi mesi Francoforte ha prima imposto una cura da cavallo al Montepaschi, sulla base solo di scenari avversi ipotizzati negli stress test. Poi ha indicato una data irremovibile, cioè il 31 dicembre 2016, per risolvere tutti i problemi. Poi ha negato qualunque proroga. Infine, una volta chiaro che l’intervento statale sarebbe stato necessario, ha deciso di cambiare tutti i parametri di calcolo e di accrescere l’aumento di capitale di Mps da 5 a 8,8 miliardi.

Nessuno critica queste decisioni, che partono da una situazione di Mps davvero degenerata. Ma qualche domanda bisogna porsela: è giusto che la Vigilanza imponga misure draconiane e scadenze irremovibili, senza pensare alle conseguenze che le sue decisioni hanno sull’intero sistema e prima ancora sulla salute del vigilato? È giusto che tutti i minimi dettagli siano resi pubblici, incluse le scadenze, creando gravi turbamenti sui mercati che alla fine rendono irrealizzabili i salvataggi chiesti dalla stessa Bce? Su Mps si poteva percorrere una strada diversa, per raggiungere gli stessi risultati senza soldi pubblici? Si poteva evitare l’effetto contagio e disorientamento sull’intero sistema bancario italiano?

Cronaca di una morte annunciata
Prima di rispondere bisogna percorrere le ultime tappe di questa crisi che ha costretto lo Stato a salvare Mps. Tutto inizia il 23 giugno 2016: alla luce degli stress test che vedono Mps uscire come la peggiore banca d’Europa in un’eventuale situazione di crisi estrema, la Vigilanza della Bce (il Supervisory board guidato da Danièle Nouy) richiede alla banca senese un piano ben preciso di riduzione dei crediti deteriorati. Mps in effetti ha una quantità esorbitante di prestiti avariati, pari al 21,7% del totale crediti a fine 2015: il loro smaltimento è – giustamente – considerato fondamentale dalla Vigilanza. La Bce fissa dei limiti temporali per questo smaltimento: tre anni, dal 2016 al 2018.

Si badi: Mps non è insolvente in quel momento, ma anzi ha un patrimonio netto positivo. E non è neppure in perdita, dato che chiude il semestre con un utile di 302 milioni. Ma la riduzione dei crediti deteriorati dal bilancio è considerata dalla Bce – ripetiamo, giustamente – una priorità. Mps non solo incassa, ma rilancia: propone di eliminare non una parte, ma addirittura tutti i 27 miliardi di crediti in sofferenza subito, e di ricapitalizzarsi per 5 miliardi, tappando il buco che si verrà a creare una volta azzerati gli Npl. La Bce approva il piano, ma impone varie condizioni. Tra le quali, a novembre, se ne aggiunge una: il piano in tre mosse (cartolarizzazione-prestito ponte-aumento) va realizzato entro il 31 dicembre 2016. Superata quella data, sancisce la Bce, Mps finisce in risoluzione. Con forte rischio di bail-in.

Questo limite temporale, in vista del referendum costituzionale che potrebbe creare problemi a trovare investitori, crea ovvia agitazione sul mercato: il titolo scende in Borsa, i depositi fuggono dalla banca, le obbligazioni subordinate precipitano. E l’intero settore bancario italiano entra nel vortice di Borsa. Sarebbe probabilmente accaduto ugualmente, ma se non ci fosse stato un limite così perentorio per separare la vita e la morte della banca, forse il mercato sarebbe stato meno agitato.

Così, dopo il «no» al referendum costituzionale, la situazione precipita. Gli investitori che dovevano sottoscrivere l’aumento di capitale (a partire dal fondo del Qatar) si dileguano. Il vuoto politico aumenta l’incertezza. Mps prova a chiedere alla Bce una proroga di 20 giorni. Ma niente da fare: il limite del 31 dicembre, a causa della scarsa liquidità della banca, resta scolpito nella pietra. Così non resta altro da fare che aprire le porte allo Stato, penalizzando chi detiene obbligazioni subordinate. E proprio quando tutto sembra risolto, la Vigilanza Bce (senza neppure l’unanimità) lancia l’ultima zampata: siccome ora entra lo Stato, chiede a Mps un aumento di capitale quasi doppio rispetto a quello approvato dalla stessa Bce in precedenza. Creando nuova incertezza sul mercato: possibile che imposizioni analoghe siano in futuro avanzate anche per altre banche?

I precedenti
La situazione di Mps era e resta grave, l’arbitro doveva fischiare. Ma anche questa volta l’impressione è che l’intervento abbia reso ancora più difficile maneggiare una situazione che, comunque, era ed è considerata gestibile (sennò non si sarebbe avallato il tentativo privato, sennò non si concederebbe l’intervento dello Stato). E pensare che non si tratta della prima volta in cui la Vigilanza produce effetti collaterali. Due anni fa, quando Siena (insieme a Carige) era uscita malconcia dagli stress test pubblicati il 26 ottobre 2014, la Bce impiegò sette settimane per approvare i piani di ristrutturazione delle due banche. Un tempo troppo lungo per la Borsa: i due titoli in quel lasso di tempo persero infatti 2,3 miliardi sul listino, cioè due terzi di quanto le due banche avrebbero dovuto raccogliere sul mercato proprio in ossequio alle richieste del regolatore. Che, da allora, ha continuato a scandire la vita delle due banche a suon di diktat e ultimatum (basta pensare al “tifo” per l’offerta avanzata da Apollo a Carige). E anche tra Milano e Verona ne sanno qualcosa, visti i paletti posti dalla Bce per l’aggregazione tra Bpm e Banco Popolare: possibile che proprio quei paletti e l’intransigenza di Francoforte possano scoraggiare altri istituti ad aggregarsi, cosa invece auspicata dalla stessa Vigilanza?

Nessuno può dire che le banche italiane non abbiano problemi. E nessuno può pensare che la Bce non sarebbe dovuta intervenire. Tutt’altro, sia chiaro. Ma le modalità di azione, l’inflessibilità, l’incapacità di comunicare al mercato da parte di un’Autorità di vigilanza che non solo è nuova ma che è anche frutto di compromessi tra vari Paesi, hanno senza dubbio peggiorato la situazione già logora di queste banche. Un bravo medico deve salvare il malato: se ogni suo paziente viene tramortito dalla medicina o dal dosaggio prescritto, qualcosa dovrà pur significare.

 

 

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