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La gentrificazione globale, tra speculazione edilizia e progetto multinazionale

Per chi ha visto lo “stato sociale” del Grande Nord europeo, la politica abitativa lì praticata è sempre stata un sogno inarrivabile: case popolari in quantità (anche oltre il 40% del patrimonio immobiliare totale), ben costruite, con materiali più che discreti, criteri di assegnazione logici e coerenti, bassa influenza delle dinamiche corruttivo-clientelari.

L’esato contrario di quel che è avvenuto in Italia da 40 anni a questa parte, con il patrimonio di edilizia residenziale pubblico che è stato ridotto al di sotto del 2%, costringendo il lavoro dipendente a correre verso l’indebitamento a vita per poter avere un tetto sulla testa, procedure di assegnazione assenti o pesantemente segnate dal clientelismo. Un panorama che ha favorito in modo quasi incalcolabile la rendita immobiliare, facendo esplodere i prezzi degli immobili anche in zone per nulla “di pregio”, esplosione del mercato e dei livelli degli affitti, costringendo le fasce più deboli a ricorre all’antica pratica dell’occupazione e quindi ad incorrere nei fulmini della repressione-criminalizzazione.

Come ultima conseguenza sciagurata, le poche assegnazioni fatte a cittadini originari di altri paesi hanno messo in moto le dinamiche eterne della “guerra tra poveri”, offrendo su un piatto d’argento ai fasciorazzisti l’occasione per innescare aggressioni e provocazioni al grido di “prima gli italiani”. Un esempio di come governi criminali e di destra (il Pd è ormai indistinguibile dalla Lega o Forza Italia, sui temi sociali fondamentali), al servizio della rendita e dell’ultimo comparto industriale a “forte connotazione nazionale” – costruttori e palazzinari – sfruttino l’insicurezza esistenziale dei ceti più disagiati per costruirsi una fascia di consenso manesco e servile.

Ma la disgraziata Italietta della speculazione edilizia appare al capitale speculativo multinazionale europeo un esempio ormai da imitare. Questa analisi di quanto va maturando nell’Olanda neoliberista di Jeroen Dijsselbloem e soci, pubblicata da I diavoli, chiarisce i passaggi tipici di un progetto di largo respiro internazionale che si ripresenta in forme simili ormai in tutto il Vecchio Continente.

Il processo di gentrificazione della popolazione povera ancorché occupata – quello che abbiamo visto nella Milano da bere degli anni ‘80 e ‘90, o nella Roma degli ultimi 30 anni – appare così ben poco “oggettivo” e “naturale”. Ed anche la scarsissima comprensione con cui viene vissuto dalle popolazioni serve a rendere la resistenza quasi inesistente.

 

Rotterdam in progressiva gentrification

da http://www.idiavoli.com

Rotterdam si indirizza verso la demolizione di alcune realtà di social housing e verso una progressiva gentrification. Si sbiadisce l’immagine portuale e industriale della città, che si orienta strategicamente a ospitare e intrattenere.

Il 30 novembre scorso si è tenuto un referendum importante per Rotterdam e per le sue prospettive di sviluppo. I cittadini erano chiamati a valutare il piano urbanistico comunale, che puntava a sostituire circa 20.000 case popolari con circa 36.000 immobili destinati alla fascia economica medio-alta della popolazione. Si era arrivati al referendum attraverso una petizione che aveva raccolto oltre diecimila firme.
Il quorum era fissato al 30%, la partecipazione al voto si è fermata al 17%. Il referendum ha fallito.

Eppure in una città come Rotterdam la dismissione di politiche abitative attente alla marginalità si direbbe miope, oltre a spezzare la tradizionale, fortissima cura dei Paesi Bassi per il social housing. Perché a Rotterdam la disparità è fortissima. Le zone-bene, molte delle quali vengono da un processo di gentrification recente, stridono violentemente con i quartieri di mala fama, quartieri tra i più poveri dell’intero Paese.
Città che gira intorno al suo porto, il più grande d’Europa. Città interamente ricostruita dopo la Seconda guerra mondiale, a seguito dei bombardamenti tedeschi. Città che negli anni Settanta ha conosciuto una crisi economica, legata al peso della funzione industriale, che è stata anche crisi identitaria. Città dove, a cavallo tra il Novecento e il Duemila, l’intervento di archistar e il Premio Città dell’Architettura 2007 non sono andati allo stesso passo delle condizioni abitative dei margini. Ma le hanno guadagnato i titoli di capitale dell’architettura contemporanea e “Manhattan” d’Europa.

La situazione si acuisce negli anni seguenti, quando Rotterdam si indirizza con più fermezza verso la demolizione di alcune realtà di social housing e la cessione di altre, appunto a privati. Un momento-chiave è evidentemente il risultato delle elezioni del 2002, quando la lista di Pim Fortuyn vince ai danni dell’asse socialdemocratico-verde. Nel 2006 un documento della City of Rotterdam spiega di puntare ad attrarre, nelle “zone problematiche”, una popolazione “desiderabile”.
Parallelamente la città, allentata l’immagine portuale e industriale, si orienta strategicamente a ospitare eventi culturali e d’intrattenimento. Capitale della cultura europea nel 2001. Sede del Grand Départ del Tour de France nel 2010.
Il piano di rinnovamento urbanistico che si sviluppa a Rotterdam da metà anni Settanta a inizio Novanta, tiene la barra sulla centralità del social housing e preferisce intervenire con miglioramenti e integrazioni piuttosto che con demolizioni e ricostruzioni.
Tra i quartieri inclusi nel piano, il caso forse più interessante è quello di Spangen, subito a ovest del centro città, costruito tra le due guerre mondiali. Interessante perché al centro di molti e diversi tentativi di trasformazione, se non di mera speculazione, eppure ancora abbastanza famigerato.

Quartiere marcatamente popolare, noto per questo a livello nazionale, dove l’amministrazione nei primi anni Ottanta interviene con la creazione di piazze, spazi verdi, un waterfront. E soprattutto con la modernizzazione di un terzo degli immobili di edilizia popolare.
Un decennio dopo, però, Spangen è ancora un quartiere difficile. Forse più di prima. Spaccio, prostituzione, stigma. Gli abitanti protestano, organizzano delle ronde per sorvegliare la zona.

All’inizio degli anni Zero, l’amministrazione cittadina offre immobili a prezzi stracciati, in cambio di una ristrutturazione fisica e un cambio d’immagine. Succede a Spangen con il “Wallisblok”, ma anche in quartieri simili come Bospolder-Tussendijken e Katendrecht.
Un progetto di privatizzazione che vede lo sforzo congiunto di architetti e amministratori, e nuovi residenti. I quali sono perlopiù giovani creativi, con tempo a disposizione e interessi a un profitto nel medio termine (non è permesso rivendere la casa prima di alcuni anni). A distanza di poco il progetto verrà considerato un successo.
Spangen tuttavia mantiene le sue specificità, continua a esser considerato problematico e non vede crescere il valore dei suoi immobili. A limitare la crescita sembrerebbe essere la sua natura di quartiere multiculturale della città, con la schiacciante prevalenza di abitanti non-olandesi (soprattutto da Turchia, Marocco, Suriname) e una povertà altrettanto notevole.

Altrove la gentrification ha avuto vita molto più semplice.

Subito a sud del centro di Rotterdam, per esempio, il Lloyd Quarter nella zona di Delfshaven è probabilmente l’esempio di hype più spiccata. Ex area portuale e industriale riconvertita in luogo di svago, destinata a una fascia di popolazione benestante e in particolare a quella che Richard Florida chiamerebbe creative class, è oggi una distesa di caffè ricercati, ristoranti giapponesi e boutique hotel.

Hoogvliet, comune tradizionalmente autonomo rispetto a Rotterdam, è stato annesso alla città a metà del Novecento, pur mantenendo uno statuto speciale. Legata all’impianto della compagnia petrolifera Shell, l’area di Hoogvliet è stata a lungo abitata da operai che vivevano in case popolari. Ma la forte recessione degli anni Ottanta interviene a colpire Hoogvliet a colpi di stigma: nella percezione diventa un ghetto, in balia di disoccupazione e criminalità.
Tra i quartieri di Hoogvliet più famigerati in quel periodo c’è Nieuw Engeland, dove si decide di intervenire all’inizio degli anni Novanta: perlopiù attraverso il rinnovamento degli immobili popolari, e solo in parte attraverso la demolizione e la costruzione di nuovi immobili popolari. Che hanno prezzi accessibili e possono assorbire gli abitanti degli immobili demoliti, senza costringerli al
displacement.
Alla fine del decennio, però, una nuova ondata di demolizioni a Nieuw Engeland prepara il campo a una gentrification aggressiva. Si vuole penalizzare il
social housing e l’alta densità abitativa, a vantaggio di abitanti-proprietari. L’obiettivo dichiarato dell’amministrazione è di aumentare la “controllabilità” della zona.

Il porto di Rotterdam ha conosciuto un’espansione e una forte trasformazione dalla fine dell’Ottocento e per tutto il Novecento.
L’area del vecchio porto (Oude Haven) viene riconvertita negli anni Settanta in zona parzialmente residenziale (tra l’altro con le famose “case cubiche”) e parzialmente destinata a musei e uffici.

Il 30 novembre scorso, la domanda sulla scheda del referendum diceva: “Siete a favore o contro la housing vision di Rotterdam?”. La risposta è stata chiara.
Se l’occasione era buona per lanciare un allarme, in pochi lo hanno ascoltato.

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