Per i quotidiani l’estate è un momento di vuoto. Qualche scontata cronaca sul caldo, gli incendi, il tormentone e qualche moda “trasgressiva” che tutti seguono (“omologazione”, insomma, non il suo contrario), qualche ruggito trumpiano e nordcoreano… C’è tanto spazio e da riempire e allora si moltiplicano anche gli interventi di economisti veri e presunti, che magicamente si adattano a fare il secondo mestiere più antico del mondo: il bardo di corte.
Confidano sulla generale ignoranza in materia di economia e quindi si possono permettere di sparare sentenze e previsioni che saranno smentite fragorosamente di lì a poco. Ma nessuno se ne ricorderà più, presi come siamo dall’urgenza del problema impevisto.
Siamo cattivi con gli opinionisti un tanto al chilo che campeggiano sui principali media mainstream?
Nemmeno un poco. Approfittiamo anche noi dell’estate per sottoporvi un piccolo esperimento di fact checking, con l’aiuto di Vladimiro Giacché.
Due giorni, su Il Foglio, giornale berlusconiano atipico, che ogni tanto si permette addirittura di criticare il padrone, è comparsa una entusiasta analisi a firma di Marco Fortis, dal titolo L’Italia cambia marcia. Riprende il report di Markit (centro ricerche economiche di buona fama), che segnalava come l’Italia abbia fatto registrare un’accelerazione dell’indice Pmi superiore alla emdia europea e “compatibile con una crescita trimestrale del Pil dello 0,5%”. Sembra poco ma, tenendo conto che le previsioni precedenti stimavano una crescita analoga spalmata sull’intero anno, ce n’è abbastanza da spingere Fortis (e altri, su altri media) a suonare la sirena della “svolta”.
Diciamo la verità, a dieci anni esatti dall’esplosione della crisi finanziaria globale che ancora perdura, un briciolo di ottimismo è persino comprensibile. Anzi, quasi condivisibile se – come in questo caso – la “crescita” appare sostenuta in Italia soprattutto dal settore manifatturiero; con qualche speranzella sulla ripresa anche dell’occupazione e dunque dei salari.
Se l’economia capitalistica funzionasse come scritto sui manuali degli stessi macro-economisti liberisti, in effetti, si potrebbe persino condividere…
Purtroppo non è così che va. La leggera risalita italica (ricordiamo che lo 0,5% trimestrale, se mantenuto per un anno, diventa appena un 2%) è asincrona rispetto agli altri paesi europei, che si stanno nuovamente fermando (Germania compresa). Dunque c’è qualche ragione competitiva nazionale che si è messa in azione. Fortis ci arriva subito e benedice il Jobs Act, che ha abbassato i salari, resa molto rischiosa la conflittualità sui posti di lavoro (abolendo l’art. 18), moltiplicato le forme contrattuali precarie; soprattutto, Fortis benedice le “decontribuzioni”, che hanno liberato i conti di molte aziende dal peso dei contributi previdenziali… trasferendolo sui conti pubblici.
Insomma, un abbattimento mostruoso del costo del lavoro che ha favorito un aumento impensato dei profitti e, in misura minore, anche dell’occupazione. Prevalentemente precaria, una volta finite le decontribuzioni. Quindi Fortis può dire che è stato recuperato l’80% dei posti di lavoro persi dal 2008, ma deve omettere di ricordare che l’identico posto di lavoro oggi è retribuito per una frazione di quanto lo era dieci anni fa.
Oltretutto questa “ripresa” di occupazione dipendente povera non viene affatto accompagnata da una corrispondente ripresa del lavoro indipendente, autonomi, partite Iva, ecc. Anzi, qui il calo è vistoso e continuo (altri 174.000 in meno). Andrebbe spiegato, ma crollerebbe l’incantesimo ottimista. Perché molto di quel lavoro formalmente “indipendente” era in realtà dipendente, ma camuffato (le partite Iva monocommittente…). E perché la dinamica dei consumi – che segue quella salariale – non è stata tale da permettere l’espansione di attività individuali o familiare (negozi, servizi, artigianato) che raccolgono la domanda al dettaglio. Anzi…
Ma dove Fortis scivola pesantemente è nell’invito “a rinfrescarsi la memoria”. E lo abbiamo fatto. Qui ci aiuta per l’appunto una notevole analisi di Vladimiro Giacché, risalente al 2004, comparso sulla rivista Proteo, che parte proprio da due citazioni dello stesso Fortis. Una contraria all’altra, entrambe pienamente dentro il clima prevalente dei tempi, entrambe altamente inconsapevoli di quanto andava accadendo e perché. Che sarebbe poi, e invece, il mestiere di un economista…
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Il calabrone ha perso le ali. Le piccole e medie imprese nella crisi
“In molti casi la leadership italiana a livello di interscambio mondiale appare pressoché inattaccabile nel medio-lungo termine. Ad esempio, nei tessuti di lana il saldo commerciale italiano è quasi 10 volte superiore a quello del secondo paese esportatore netto.”
(M. Fortis, 1998)
“Sarebbe grave non accorgersi di quanto sta accadendo: in alcuni distretti come Prato, Fermo, Barletta, Biella, Como, Cadore, Manzano, Livenza e l’area Murgiana nel giro di pochi mesi sono a rischio decine di migliaia di posti di lavoro”
(M. Fortis, 2003) [1]
1. C’era una volta…
“Il ronzio sordo del calabrone è un rumore assopente delle nostre estati. Ma secondo alcuni il nero insetto non avrebbe dovuto né ronzare né volare. Ne ammettevano l’esistenza, ohibò, ma a patto che zampettasse sulla terraferma. Fisici ed entomologhi si sono interrogati per lungo tempo sulla levitazione del calabrone: come diavolo faceva a reggersi in aria? Il suo peso, in rapporto alla superficie alare, rendeva impossibile il volo. Per sua fortuna, il goffo insetto ignora le leggi della fisica, e le vìola inconsapevolmente e mirabilmente.
Ecco, abbiamo voluto dare all’economia italiana l’immagine di un calabrone. Come diavolo ha fatto l’Italia a divenire il quinto Paese industriale del mondo? Con quel retaggio di immaturità statuale e di arretratezza contadina che ne appesantiva le ali? Ma malgrado tutto e contro tutto, il calabrone ha volato…”
Con queste parole suggestive si apre la storia dell’economia italiana del Novecento scritta qualche anno addietro da Fabrizio Galimberti e Luca Paolazzi. [2] Sono parole appropriate. Non perché siano corrette (al contrario, proverò a dimostrare che esse contengono un fondamentale errore di prospettiva). Ma perché esprimono bene il tono dominante nella maggior parte delle narrazioni che prendono ad oggetto l’economia italiana – ed in particolare l’economia italiana del secondo dopoguerra. Questo tono, espresso emblematicamente dalla bella metafora che abbiamo riportato, è un tono di fiaba: per una favola che si pretende a lieto fine.
Ma proviamo ad analizzare più da vicino i contenuti concreti della metafora del calabrone. La metafora, in verità, è doppia: il “calabrone” è l’immagine dell’economia italiana, le “leggi della fisica” sono le leggi dell’economia. Il calabrone italico sfida le leggi economiche – e vince. Qui non dobbiamo farci trarre in inganno dagli accenni del testo all’“immaturità statuale” ed all’“arretratezza contadina”. Il punto non è questo. Non è in questo che il “calabrone” italico sfida le leggi economiche e rappresenta un unicum vincente: non mancano, infatti, altre storie economiche di successo avvenute a dispetto dell’immaturità ed arretratezza istituzionale (si pensi anche solo alla Germania di fine Ottocento); quanto poi all’“arretratezza contadina”, è poco più che tautologico affermare che tutte le economie capitalistiche si sono sviluppate sulla base di una preesistente economia a prevalenza agricola. No: il punto è un altro. Il calabrone dell’economia italiana – questa la tesi – avrebbe sfidato con successo le leggi economiche sotto un diverso profilo: infrangendo la legge per cui la crescita della dimensione delle imprese (in termini di capitali impiegati, di mezzi di produzione posti in opera e di lavoratori occupati) è un fattore determinante per il successo economico in una economia capitalistica avanzata; o, se si vuole, confutando la concezione marxista per cui la concentrazione e la centralizzazione dei capitali rappresentano fondamentali tendenze immanenti allo sviluppo del modo di produzione capitalistico. [3]
Tradotto in termini concreti, il punto di vista di Galimberti e Paolazzi – e con loro di molti altri – è questo: sono le piccole e medie imprese ad aver reso forte l’economia italiana. L’economia italiana è forte non a dispetto delle modeste dimensioni della maggior parte delle sue imprese, ma grazie a ciò: in questo consiste la assoluta particolarità del caso italiano. Questo concetto è stato variamente espresso – non di rado avvalendosi di definizioni a forte valenza metaforica ed evocativa: così, sin dagli anni Settanta si è parlato di “Italia dei distretti industriali” (Becattini), di “terza Italia” (Bagnasco), di “capitalismo molecolare” (Bonomi).
In effetti, i dati confermano la centralità delle PMI nel tessuto economico italiano. Con riferimento specifico ai “distretti industriali” (quindi un sottoinsieme delle PMI), Sebastiano Brusco e Sergio Paba qualche anno fa hanno potuto affermare che “i sistemi produttivi in cui hanno un ruolo preminente le imprese micro, piccole e medie assorbono in Italia una quota di addetti all’industria manifatturiera che va dal 35 al 40 per cento del totale… Questi sistemi, presi tutti insieme, sono un pezzo molto rilevante del sistema produttivo italiano, più grosso di Fiat più Eni più Iri”. [4] Del resto, le imprese con meno di 50 addetti, ancora nel 1991, rappresentavano il 58% dell’intera forza-lavoro occupata in imprese manifatturiere; tale percentuale saliva ad oltre il 71% considerando le imprese con meno di 250 addetti. Non solo: nello stesso anno, prendendo a riferimento i soli settori di punta dell’export italiano (il cosiddetto “made in Italy”, ossia i settori del “sistema moda”, dell’alimentazione, dei prodotti per la casa e l’arredo, ma anche del macchinario strumentale), la percentuale di occupati presso imprese con meno di 200 addetti risultava pari addirittura all’84% del totale. [5]
Non meno significative appaiono le linee di tendenza. Se infatti si abbraccia il periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Novanta, ci si avvede di un duplice movimento.
Nei primi due decenni assistiamo ad un importante fenomeno di concentrazione industriale, conseguente a due processi: in primo luogo la creazione di un mercato nazionale, che comporta un forte ridimensionamento delle attività artigianali tradizionali e più in generale l’uscita dal mercato di numerose piccole imprese a dimensione locale-regionale (entrambi i fenomeni sono particolarmente evidenti nel Mezzogiorno): cosicché il peso delle piccolissime imprese (quelle con meno di 10 addetti) passa in vent’anni da un terzo (1951) ad un quinto (1971) dell’occupazione manifatturiera totale; in secondo luogo, l’integrazione economica europea, che impone una ristrutturazione dell’apparato produttivo nei settori più esposti alla concorrenza internazionale.
Dopo il 1971, però, lo scenario cambia. Riprende a crescere l’occupazione nelle imprese sotto i 50 addetti: dal 42% del 1971 si passa al 48% del 1981, per giungere, come abbiamo visto sopra, al 58% del 1991. Il processo opposto si registra nella media e grande impresa: quest’ultima, ossia le imprese con più di 500 addetti, vede scendere la percentuale relativa di forza-lavoro occupata di ben 11 punti dal 1971 al 1991. Ancora più eclatante quanto accade alle imprese con più di 1000 dipendenti: se dal 1961 alla fine del decennio l’occupazione in queste imprese era cresciuta del 34,7% (a fronte di una crescita dell’occupazione nell’industria del 17,6%), negli anni Settanta il percorso si inverte: dal 1971 al 1980 si ha un calo del 9,7% nella grande industria (a fronte di una crescita dell’occupazione del 12%); [6] il calo dell’occupazione nella grande industria continuerà per tutto il ventennio successivo (per avere un’idea della situazione, si pensi anche solo alle vicende della Fiat, che proprio dal 1980 imbocca con decisione la strada dell’espulsione della forza-lavoro dalle fabbriche).
E oggi? Tali processi si sono ulteriormente accentuati: se ai censimenti del 1981 e 1991 la dimensione media in termini di addetti delle aziende italiane risultava pari a 4,5, essa nel 2001 è scesa a 3,9. Non solo: le imprese con più di 500 addetti – “grandi” – erano 1.265 (con il 18,8% degli addetti, 2,4 milioni) nel 1981; 1.173 (con il 18,1% degli addetti, 2,6 milioni) nel 1991; 1.061 (con il 16,2% degli addetti, 2,2 milioni) nel 1996. Il 95 per cento delle aziende ha meno di 10 dipendenti; anche nell’industria la dimensione media è appena di 6,5 addetti. [7]
2. “Piccolo è bello”: il nanismo e i suoi perché (presunti)
Fin qui le cifre. Come si spiegano? I cantori della gesta delle PMI rispondono essenzialmente con quattro argomenti, tra loro connessi:
a) La crisi del fordismo. Secondo questo argomento, di fronte alla perdita di importanza della produzione standardizzata di massa, la grande industria si sarebbe dimostrata incapace di seguire i bisogni sempre più sofisticati e personalizzati del consumatore. Viceversa, la piccola impresa sarebbe per sua natura più flessibile, innovativa e capace di cogliere le esigenze della clientela. Per rafforzare questo argomento, si fa in genere riferimento alle specifiche nicchie di specializzazione delle imprese italiane, che riguardano tra l’altro la cura della persona, l’arredo-casa, la moda. Tutti settori, si argomenta, in cui l’inventiva e la personalizzazione del prodotto giocano un ruolo fondamentale.
b) La relativa importanza delle economie di scala. Secondo questo argomento, le economie di scala nella produzione non sono l’unico, né il principale fattore competitivo. Sooprattutto, se si considerano non le PMI isolate, ma i “sistemi di piccole imprese” che caratterizzano i “distretti industriali”: questi ultimi – così la tesi – riescono a raggiungere lo stesso risultato delle economie di scala della grande impresa (ossia la riduzione dei costi di produzione) mettendo in comune servizi, informazioni, rapporti con i fornitori ecc.
c) La grande importanza delle innovazioni incrementali. Questo argomento punta a sminuire l’importanza delle attività di ricerca e sviluppo tecnologico, che solo le grandi imprese possono permettersi e che danno luogo a nuovi prodotti (poniamo, la scoperta di nuovi polimeri che consente alla Montecatini di produrre il moplen, o la scoperta del nailon), enfatizzando per contro le innovazioni incrementali: quelle innovazioni, cioè, che affinano prodotti già esistenti, variandoli in misura lieve ma significativa, personalizzandoli e facendone qualcosa di nuovo (ad esempio, così Brusco e Paba, la realizzazione di “una mischia equilibrata di lana cachemire e lana merinos, con una dose minima di fiocco di nailon”, tale da “produrre un tessuto leggero, morbidissimo e resistente”). [8]
d) La libertà dai “lacci e lacciuoli” che avvincono la grande industria. Secondo quest’ultimo argomento, le PMI, proprio a motivo della loro ridotta dimensione, patirebbero meno delle grandi imprese vincoli regolamentari, fiscali e sindacali. Non è difficile capire di cosa stiamo parlando: sarà sufficiente ricordare il tenore della campagna contro l’estensione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori anche alle imprese al di sotto dei 15 dipendenti…
A queste argomentazioni si può rispondere in molti modi, tanto sotto un profilo metodologico quanto da un punto di vista più strettamente fattuale.
a) Ad esempio, con riferimento all’argomento “postfordista” si può argomentare che la produzione standardizzata di massa non ha perso per nulla la sua importanza (se non per pochi prodotti realmente di nicchia, che in ogni caso coprono una porzione minima anche della produzione italiana), e che comunque le grandi imprese sono oggi in grado di dare ai loro prodotti quel tanto di “aura personale” in grado di incontrare il gusto del consumatore (le cui raffinate esigenze, sia detto per inciso, non sono che il prodotto della maturità di alcuni mercati di sbocco – ossia di una situazione di endemica sovrapproduzione che dura ormai da decenni). Comunque sia, non sembra che alcuni dei settori in cui l’export italiano è tradizionalmente forte, come quello della meccanica strumentale, siano particolarmente sensibili alla “personalizzazione dell’offerta”…
b) Quanto alle economie di scala “aggirate” dalle cooperazioni a carattere consortile presenti nei cosiddetti “distretti industriali”, va rilevato che si tratta di discorsi piuttosto generici e perlopiù privi di sufficienti specificazioni e di dati quantitativi a supporto. Del resto, non è fuori luogo ricordare che anche solo sulla definizione di “distretti industriali” non esiste alcun accordo tra gli studiosi – tanto che le stime sul loro stesso numero variano in misura considerevole da un autore all’altro. [9]
c) Quanto all’argomento delle innovazioni incrementali (su cui tornerò più avanti) basterà dire che la sua stessa impostazione presuppone proprio ciò che pretenderebbe di negare: ossia la necessità della grande industria. In effetti, perché io possa pensare di unire il nailon ad altre fibre, è quantomeno necessario che qualcuno abbia prima inventato il nailon. Che è come dire che lo sviluppo delle PMI non è autosostenuto, ma presuppone l’esistenza di una grande impresa (pubblica o privata) che fa ricerca applicata e innovazione di prodotto.
d) Infine, l’argomento dei “lacci e lacciuoli”. È certamente valido – anche troppo, come vedremo.
Quanto sopra – e molto altro – si potrebbe dire. Ed è stato detto da parte di non pochi autori. Ai quali per molti anni è stato risposto… con la metafora del calabrone. Ossia esibendo i successi ottenuti dal “made in Italy” nel mondo, e confrontandoli con i disastri della chimica, dell’auto e di altri settori di pertinenza della (fu) grande industria italiana. Atteggiamento comprensibile: il successo, in un certo senso, si autogiustifica, si spiega da sé. È la sconfitta che richiede di essere spiegata, analizzata, capita.
Sennonché, da qualche tempo in qua, cresce il bisogno di spiegare, analizzare, capire. Perché al nostro calabrone il successo non arride più. Anzi.
3. La forza del declino
Nella relazione del Governatore della Banca d’Italia del 31 maggio 2003 si poteva leggere quanto segue:
“In cinque anni, tra il 1997 e il 2002, la produzione industriale ha segnato in Italia un aumento del 3 per cento. In Francia l’incremento è stato intorno all’11, in Germania del 12; nell’area dell’euro, escludendo l’Italia, si situa al 14 per cento…
La quota delle esportazioni italiane nel mercato mondiale era progressivamente salita, tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta, dal 2 al 4,5 per cento…
Dalla metà degli anni novanta è iniziato un declino della competitività che ha riportato la partecipazione italiana agli scambi mondiali al livello raggiunto alla metà degli anni sessanta. A prezzi costanti, la quota di mercato è diminuita dal 4,5 per cento nel 1995 al 3,6 nel 2002. La perdita è diffusa in tutti i mercati.” [i]
“Nel 2002 le esportazioni di beni e servizi sono diminuite in Italia dell’1% a prezzi costanti, per la prima volta negli ultimi dieci anni… Nel complesso dell’anno il ristagno delle esportazioni di beni si confronta con una crescita del commercio mondiale nell’ordine del 3%…
Nel 2002 quasi tutti i principali settori di specializzazione hanno registrato una diminuzione delle esportazioni in valore: apparecchi elettrici e di precisione (-10,8%), cuoio e calzature (-8,7%), prodotti tessili dell’abbigliamento (- 4,7%), mobili (-3,5%) e macchine e apparecchi meccanici (-2,8%)”. Uniche eccezioni: “le esportazioni di prodotti alimentari, bevande e tabacco (+5,7%), di prodotti chimici (+ 3,8%) e di mezzi di trasporto (+ 2,2%, nonostante una caduta del 5% nel comparto degli autoveicoli)”. [i]
Se poi prendiamo i dati Istat relativi ai primi 11 mesi del 2003, assistiamo ad un vero e proprio crollo, guidato da cuoio e prodotti in cuoio (- 21,2%) e legno (- 19,1%), e seguito dal tessile-abbigliamento (-12,3%), dalla meccanica (- 8,4%), dai mezzi di trasporto (- 8,4%) e dagli alimentari (- 7,4%). Si salvano soltanto i prodotti petroliferi raffinati (+ 28,2%) e la chimica (+ 2,5%). E comunque il saldo è negativo: esportazioni in calo del 4,4% su base annua. [10]
Comprensibilmente, tra i passatempi preferiti degli arcoriani al governo (e degli “intellettuali” al seguito) vi è l’escogitazione di trucchetti dialettici per coprire e mistificare questa realtà allarmante. Lasciando da parte per carità di patria i più risibili (del tipo: “è tutta colpa dell’11 settembre”), uno dei più gettonati è il seguente: “guardate che la Germania sta peggio di noi”. Falso. Perché, se è vero che nel 2002 (e nel 2003) la produzione ha ristagnato sia in Germania che in Italia, le cause sono ben diverse: nel primo caso il motivo è la debolezza della domanda interna, nel secondo è il crollo dell’export.
E non si tratta di una tendenza di breve periodo. Come ha evidenziato il vicedirettore generale della Banca d’Italia, Pierluigi Ciocca, nell’ottobre scorso, “dal primo trimestre del 2001 al terzo del 2003 l’espansione dell’attività produttiva è stata pressoché nulla: la più lunga fase di ristagno in mezzo secolo”. Ecco la realtà del “miracolo italiano” promesso da Berlusconi & Soci. Ma ecco anche – ed è questo che qui interessa rilevare – la situazione di un tessuto produttivo imperniato sulle piccole e medie imprese. Leggiamo ancora Ciocca: “il limite del made in Italy è nei prezzi alti. Ma anche nella qualità, nella composizione merceologica, nel vecchio pertinace modello di specializzazione”. Ed è proprio la ridotta dimensione delle imprese che “congela quel modello, restringe l’investimento all’estero, limita le esportazioni”. [11]
Quali che siano le cause, una cosa è certa: il quadro che abbiamo di fronte oggi è drammaticamente diverso anche solo da quello della fine degli anni Novanta. L’“invincibile armata” dei piccoli sembra in rotta. Apparentemente, di invincibile c’è solo la forza del declino. Il declino di un modello di specializzazione, di un modello dimensionale, in ultima analisi di un modello di capitalismo. È una situazione che può spingere l’Italia inesorabilmente ai margini dell’economia europea, consegnandole un ruolo periferico nella divisione internazionale del lavoro. Ma che ha almeno un merito: quello di fare giustizia del mito dell’“unicità del caso italiano e delle PMI”, creato dalla pubblicistica economica nei lontani anni Settanta e riprodottosi per decenni, grazie soprattutto ad alcune fortunate circostanze ed al suo comodo carattere ideologico e consolatorio. Sì, perché la crisi di oggi è in grado di farci comprendere la verità sulla “terza Italia”: essa ci rivela infatti quali fossero la ragion d’essere ed i vantaggi competitivi (quelli veri) delle piccole e medie imprese italiane – e lo fa nel preciso momento in cui cominciano a perdere di significato e di efficacia. Vediamo.
4. Piccole, brutte e cattive: la verità sulle PMI
4.1. Un popolo di subfornitori
L’“irresistibile ascesa” delle PMI italiane, come abbiamo visto, comincia negli anni Settanta. Non inizia per la geniale capacità di seguire i “bisogni del consumatore” snobbati dall’insensibilità della grande industria. Inizia nella grande crisi di sovrapproduzione di quegli anni, che colpisce severamente la grande industria. Quest’ultima, infatti, grazie all’accresciuta forza e consapevolezza della classe operaia non può più adoperare la leva dei bassi salari (che aveva rappresentato il grande punto di forza degli anni del boom) e vede quindi ridursi drasticamente i margini di profitto. E reagisce esternalizzando produzioni, per colpire il sindacato e la capacità di contrattazione della classe operaia. La situazione viene così descritta da Brusco e Paba, autori certo non sospetti di essere pregiudizialmente ostili alle PMI: “fu, quella, la stagione del decentramento, dello spostamento di fasi elementari di lavorazione dalla grande impresa a imprese minori. Migliaia di tornitori o fresatori furono licenziati dalle grandi imprese, e ripresero a lavorare come subfornitori per le stesse imprese da cui erano stati licenziati, spesso con macchinari uguali a quelli usati in precedenza, talvolta proprio con le stesse macchine.” Questo si tradusse, come fu ben presto denunciato dal sindacato, in salari più bassi, straordinari più frequenti, diffusione del lavoro nero, più in generale minori tutele per il lavoro. Del resto, i numeri parlano da soli: posti pari a 100 i salari delle imprese maggiori, i salari delle imprese da 20 a 50 addetti erano pari a 67 nel 1974-7 e pari a 71 ancora alla fine degli anni Ottanta. [1] Come ovvio risultato, la quota dei profitti lordi sul valore aggiunto risulta più alta nelle piccole imprese che nelle grandi in tutto il periodo considerato.
È essenziale notare che quel rapporto di subfornitura non è cosa che le PMI italiane si siano lasciate alle spalle col passare del tempo. Tutt’altro. Infatti, se prendiamo i dati della più recente indagine sulle imprese manifatturiere condotta dall’“Osservatorio sulle piccole e medie imprese” di Capitalia, scopriamo che le imprese che lavorano su commessa sono il 68,7% del totale; che il cliente-impresa che acquista è per il 52,6% un’impresa localizzata in un’altra regione italiana e per il 23,1% un’impresa estera. Giustamente, gli autori della ricerca concludono che si tratta di dati che “confermano il consolidamento della divisione del lavoro tra grandi imprese e PMI. Secondo tale modello, le imprese piccole e medie sarebbero destinate a soddisfare, attraverso accordi di subfornitura, quote crescenti di produzione delle grandi imprese. Il risultato di queste politiche consentirebbe alla grande dimensione di ridurre il costo del lavoro, nonché gli investimenti in capitale circolante, favorendo l’allargamento delle funzioni commerciale e finanziaria”. Ma non è tutto: perché anche per le imprese oltre i 500 addetti più del 56% del fatturato è stato realizzato vendendo ad altre imprese. Scopriamo così che “l’industria manifatturiera italiana è un’industria intermedia, inserita in una filiera, a cui a monte e a valle stanno altre imprese”. [2] Altro che genio italico in grado di mandare in sollucchero il consumatore più esigente! L’industria manifatturiera italiana nel suo complesso è sempre più un’industria di subfornitura, che ha come cliente altre imprese!
Dovremo prenderne nota ed aggiornare l’elenco delle categorie che incarnano le virtù italiche: siamo un popolo di santi, eroi, poeti, navigatori… e subfornitori.
4.2. Nani NON per caso
Ovviamente, il nanismo non è un destino. Il fatto di essere prevalentemente subfornitrici non impedirebbe di per sé alle imprese di crescere, dimensionalmente e dal punto di vista della focalizzazione di business, realizzando economie di scala, magari per giungere (perché no?) a presidiare direttamente i mercati di riferimento. E, ovviamente, talora questo processo di crescita dimensionale si verifica realmente. Ma bisogna constatare che la tendenza generale va nella direzione opposta: “la piccola dimensione si è accentuata nella struttura industriale italiana negli anni 90. Tra il ’96 e il ’99 il peso della classe d’imprese composta da 1-2 addetti è aumentato; quella con 100 dipendenti e oltre rappresentava meno di un quarto dell’occupazione nelle industrie e nei servizi”. [3] Volendo esprimere tutto questo in termini paradossali, si potrebbe dire che il nanismo industriale italiano cresce. Si tratta però di capire il perché.
In verità, il nanismo è in primis la logica conseguenza del controllo familiare delle imprese. E non è un caso che anche il carattere familiare del capitalismo italiano si sia rafforzato negli ultimi anni: la percentuale di persone fisiche residenti che detengono la proprietà o il controllo diretto dell’impresa è infatti giunta all’89,9% del totale. [i] Il controllo familiare di un’impresa ha precise implicazioni negative sia in termini di governance, sia in termini di finanziamento.
Con riferimento al governo dell’impresa, è evidente che la selezione del management su base familiare-dinastica (una base che oltretutto col passare delle generazioni si amplia talora a dismisura, creando ovvi problemi di ingovernabilità dell’impresa) si rivela nella maggior parte dei casi inefficiente: essa risulta in generale inadeguata a gestire la crescita aziendale e comunque a governare un’entità complessa qual è oggi l’impresa.
Ma il tema più delicato è quello del finanziamento: come constata Fortis, “uno degli aspetti più critici del sistema delle PMI italiane” è per l’appunto rappresentato dal fatto che esse, “essendo in larga maggioranza ad azionariato famigliare, ormai presentano un livello inadeguato di capitalizzazione”. Per logica conseguenza, le PMI sono in genere molto indebitate, con una forte prevalenza del debito bancario e soprattutto di quello a breve termine (nel caso delle imprese sino a 50 addetti, nel 2000 l’incidenza dei debiti a breve termine superava il 70% del totale). Non solo: a differenza di quanto le ricorrenti giaculatorie confindustriali indurrebbero a ritenere, i prestiti bancari alle imprese sono in aumento. Basti pensare che il volume dei prestiti alle imprese non finanziarie è salito del 70% nel periodo 1995-2002, e del 4% nel solo 2002 (in quest’ultimo anno è cresciuto addirittura del 7,2% il credito alle imprese con meno di 20 addetti). [4] Il punto è che, in assenza di un’adeguata patrimonializzazione, i finanziamenti non servono a finanziare investimenti, ma solo il circolante: in altri termini, consentono il galleggiamento dell’impresa, non il suo sviluppo e la sua crescita.
Ma c’è di più: come ha rilevato Ciocca nell’intervento già citato, “superata la recessione del 1992-93, la quota dei profitti sul reddito nazionale, il saggio del profitto sul capitale investito, il rendimento degli attivi d’impresa sono tendenzialmente aumentati”, situandosi “su valori in media superiori a quelli degli anni precedenti la recessione”. [5] Ora, se questo è vero una domanda sorge spontanea: dove sono finiti i profitti realizzati dalle PMI? La risposta è obbligata: nel patrimonio personale dell’imprenditore e della sua famiglia. La situazione è stata così descritta da Marcello De Cecco in un suo illuminante saggio: “mediante lo svuotamento sistematico dei bilanci, gli imprenditori italiani sono riusciti a costituirsi fortune familiari che, sommate tra loro, raggiungono dimensioni totali veramente ragguardevoli. Le loro imprese continuano ad essere indebitate con le banche, mentre gli imprenditori appaiono come i migliori clienti potenziali per le nuove attività di consulenza finanziaria che le banche hanno iniziato da quando il Tesoro italiano ha cominciato, qualche anno fa, a remunerare a tassi assai meno convenienti per gli investitori il proprio debito, che era parte cospicua del patrimonio delle famiglie, anche di quelle degli imprenditori”. [6] Quindi, cospicui patrimoni personali e familiari a fronte di una scarsa patrimonializzazione delle imprese, con quello che ne consegue: dimensioni rachitiche e crescita asfittica delle imprese stesse (e oggi, all’orizzonte, l’uscita dal mercato).
L’alternativa a tutto questo, ovviamente, ci sarebbe: aprire l’azienda ad altri soci, ad investitori istituzionali o quotarla in borsa. [7] Ma ovviamente questo comporterebbe, per il nanocapitalista italico, il rischio di perdere il controllo della società. E quindi si preferisce ricorrere esclusivamente (o quasi) a prestiti bancari – e si resta nani. Vale però la pena di notare che l’alternativa tra apertura del capitale a terzi e crescita patrimoniale da un lato, e stentata sopravvivenza mantenendo il controllo familaire dell’impresa dall’altro, rappresenta – prima o poi – un’alternativa secca, che non consente scappatoie o “terze vie”. Infatti, come ricordava Marx, “con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, cresce il volume minimo del capitale individuale, necessario per far lavorare un’azienda nelle sue condizioni normali”, ossia “aumenta il volume minimo di capitale che è necessario al capitalista individuale per la messa in opera produttiva del lavoro”. [8] Per capire come tutto questo si traduca in concreto nella situazione attuale, è sufficiente rifarsi a un recente testo sui mercati finanziari europei: “l’omogeneizzazione dei mercati mondiali ha determinato in molte industrie un sostanziale aumento delle economie di scala e un incremento delle dimensioni minime di investimento… Tutto ciò richiede di norma risorse finanziarie eccedenti quelle aziendalmente disponibili per la crescita, e il mercato internazionale dei capitali è pronto a fornirle purché si sia in grado di dimostrare che dalla crescita, dalle fusioni e dalle acquisizioni deriveranno guadagni adeguati al capitale investito. In tal modo il mercato internazionale dei capitali diviene il vero giudice del merito e della fattibilità delle strategie e dei progetti di impresa. Per l’Europa continentale ciò significa sottrarre il giudizio sulla condotta delle imprese ai gruppi di controllo che l’avevano tradizionalmente esercitato in modo esclusivo.” [9] Qui ci si riferisce alle grandi imprese: ma è un discorso che ovviamente vale a maggior ragione per le piccole e medie. Insomma: al processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali non è possibile sottrarsi – se non al prezzo di sopravvivere in nicchie limitate; o in una relazione di indipendenza formale, ma dipendenza sostanziale – caratterizzata da una precarietà di fondo – dal grande capitale (come avviene nel caso del rapporto di subfornitura).
4.3. La concorrenza di prezzo e le sue basi (insostenibili)
Si può essere tentati di reagire a quanto ora argomentato con una certa dose di scetticismo: se la situazione è così fosca, come è possibile che così tante piccole e medie imprese italiane stiano ancora in piedi? Come è stato possibile per così tante imprese sopravvivere così a lungo normalmente, facendo non pochi profitti? La risposta è molto semplice: è stato possibile grazie ad un insieme ben determinato di fattori che hanno consentito alle imprese italiane di vendere le loro merci a prezzi relativamente convenienti. Tali fattori hanno però caratteristiche piuttosto inquietanti (a volte più d’una assieme): o non sono più riproponibili nella situazione attuale, o sono una sorta di doping che ha effetti benefici nel breve ma distruttivi nel lungo periodo, o consistono in puri e semplici comportamenti illegali. E veniamo all’esame di questi fattori:
1) I salari bassi. Bassi – si intende – non soltanto in relazione alle grandi imprese, ma anche alle imprese concorrenti degli altri Paesi industrialmente avanzati. Non stiamo parlando di eventi lontani nel tempo: come ci ricorda Ciocca, negli anni Novanta “la dinamica delle retribuzioni in termini reali si è attenuata anche rispetto a quella della produttività”. Nonostante il gergo un po’ criptico, è facile capire cosa il testo appena citato significhi; tant’è vero che lo stesso autore subito dopo aggiunge: “il salario non è fra i principali problemi presenti dell’economia italiana”. [10] Ora, a ben vedere i problemi nascono proprio di qui. E sono di due ordini. Il primo è che dopo l’attacco ai salari degli ultimi decenni, ed in particolare alla luce del furibondo carovita che imperversa attualmente nel nostro Paese, le buste paga non appaiono ulteriormente comprimibili. Si tratta quindi di un fattore non riproponibile (o, se si vuole, ormai “anelastico”). Il secondo problema è che l’utilizzo esclusivo o preminente della leva del costo della forza-lavoro come fattore di competitività è un disincentivo all’innovazione di processo (è in certo qual modo regressivo, risospingendo indietro la frontiera dei profitti, dal plusvalore relativo al plusvalore assoluto), [11] e spinge ad una competizione basata esclusivamente sul prezzo dei prodotti e non sulla loro qualità (contenuto tecnologico, innovazione, ecc.). Cosicché si finisce, naturalmente, per competere con imprese dei Paesi cosiddetti emergenti, le quali comunque si giovano di un costo della forza-lavoro molto inferiore a quello italiano e quindi, dalla competizione su questo terreno, hanno tutto da guadagnare. Quindi, si tratta anche di un fattore che dà benefici nel breve ma ha effetti distruttivi nel lungo periodo.
2) Le svalutazioni competitive. Per decenni la competitività delle imprese italiane è stata “dopata” per mezzo di svalutazioni competitive della lira (le quali, giova ricordarlo, rappresentano una delle più classiche forme di politica di classe e socializzazione delle perdite, oltreché di ingiusto privilegio attribuito ai debitori nei confronti dei creditori). Per avere un’idea delle dimensioni di questo “doping” basterà ricordare che “tra il 1971 e il 1993 la diminuzione del tasso di cambio nominale, nei confronti delle principali monete, è stata prossima al 70 per cento”. [i] Piccolo problema: con l’euro questa storia è finita, anche se la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro (durata sino all’inizio del 2002) può aver dato l’illusione che le cose non fossero granché cambiate. Non aver capito che questo nuovo vincolo costringeva a cambiare gioco costituisce uno dei più gravi errori strategici compiuti dall’imprenditoria italiana.
3) Un’evasione fiscale spropositata. Che l’evasione fiscale e contributiva (grazie all’evasione in senso stretto ed al lavoro nero) abbia costituito nel corso degli anni uno dei maggiori (indebiti) vantaggi competitivi per le piccole e medie imprese è così poco un mistero, che alcuni autori ne parlano in premessa dei loro ragionamenti su piccole imprese e distretti industriali. [12] Del resto, persino Antonio Fazio, che difficilmente potrebbe essere considerato un acceso giacobino, ha potuto parlare di “abnorme estensione del lavoro irregolare”. [13] Ed è il meno che si possa dire, in presenza di dati come questi: una media italiana di lavoro irregolare pari al 14,5% delle unità lavorative totali nel 2000, che diventa il 22% nel Mezzogiorno (con punte del 29, 25 e 24% in Calabria, Campania e Sicilia) ma che anche nella regione più “virtuosa” (il Piemonte) è comunque superiore al 10%; il che, tradotto in cifre assolute, fa oltre 3 milioni e mezzo di lavoratori al nero secondo le elaborazioni condotte dalla Banca d’Italia su dati Istat. Ma secondo l’Eurispes nel 2003 le cose stanno ancora peggio: la percentuale sul totale dovrebbe oscillare addirittura tra il 30% e il 48% del totale, e le cifre assolute assommare a qualcosa tra i 7 e gli 11 milioni di lavoratori in nero; in tal caso l’economia sommersa (che sfugge del tutto al fisco) varrebbe non meno di 317 miliardi di euro (il 27% dell’intero prodotto interno lordo!). [14] Alla luce di questi dati, davvero non sorprende che l’Agenzia delle Entrate stimi l’ammontare totale dell’evasione fiscale annua come superiore a 200 miliardi di euro…
Il problema per quest’ultimo “fattore competitivo” è ovviamente in primo luogo se questa forma di – chiamiamola così – incentivazione sottobanco sia nel lungo periodo sostenibile per il nostro “sistema Paese”: e la risposta non può che essere negativa. Ma è anche un altro: il fatto cioè che questo enorme gettito mancato si traduce inevitabilmente in esternalità negative fortemente percepite (e a gran voce denunciate) dalle stesse imprese: servizi pubblici inefficienti, inadeguata spesa per l’istruzione (siamo al 4,9% del PIL, contro una media OCSE del 5,9%), un bassissimo tasso di laureati (pari a un terzo rispetto a molti Paesi europei ed al Giappone, e a poco meno di un quarto rispetto agli USA), carenze infrastrutturali croniche, ecc. ecc.
(Ai tre fattori ora citati andrebbero probabilmente aggiunte le agevolazioni pubbliche. Al riguardo è necessaria una certa cautela, soprattutto in assenza di un quadro comparato delle incentivazioni adottate dagli altri Paesi dell’Unione Europea, dal Giappone e dagli USA. È però senz’altro possibile quantomeno sfatare la ricorrente geremiade circa la “mancata attenzione” dello Stato italiano nei confronti delle imprese. In effetti, se tale “mancata attenzione” – come abbiamo visto sopra – è reale al momento della riscossione delle imposte, non lo è affatto per quanto riguarda l’erogazione di contributi pubblici. Un dato per tutti: sul totale delle imprese campionate per l’indagine sull’industria manifatturiera sul triennio 1998-2000, risultano aver fatto ricorso ad agevolazioni creditizie e fiscali il 38% delle imprese, con una crescita in quasi tutte le classi dimensionali rispetto al triennio precedente. [15])
4.4. L’innovazione, questa sconosciuta
Nel suo Capitalisti d’Italia, Ugo Bertone racconta con nostalgia della mitica macchina da scrivere Lettera 22 della Olivetti, “disegnata da Marcello Nizzoli, colorata in tinte pastello”. E aggiunge subito: “i profitti di questi prodotti (la vera new economy del tempo) consentono di destinare 1500 lavoratori, il 10 per cento della forza lavoro, all’attività di ricerca e sviluppo”. [16]
Quando si parla di innovazione, si parla di questo: non di “colpi di genio”, ma degli investimenti – talora ingentissimi – che sono necessari per la ricerca e la creazione di nuovi prodotti e la messa a punto di nuovi processi produttivi. Da questo punto di vista, il panorama italiano attuale è decisamente sconfortante, e giustifica la nostalgia di Bertone. La spesa complessiva in ricerca e sviluppo tecnologico, che era all’1,3% del prodotto interno lordo nel 1990, dal 1995 è scesa all’1%. Si tratta di un dato grave e preoccupante per tre ordini di motivi.
Il primo motivo attiene alla volontà, da parte del governo e del padronato italiano, di mantenere gli impegni presi: basti ricordare che tra quanto stabilito nel patto del luglio 1993 vi era nientemeno che il raddoppio della quota di spese in ricerca e sviluppo tecnologico!
Il secondo motivo è che i Paesi capitalistici più avanzati si attestano su grandezze molto lontane da queste cifre: gli USA nel 2001 erano al 2,8%, il Giappone al 3%, il Regno Unito “appena” l’1,9%.
Il terzo motivo è nascosto dentro queste cifre, e riguarda la proporzione tra spesa pubblica e spesa privata. Come ha dimostrato Riccardo Faini, a differenza di quanto generalmente si pensa, la spesa pubblica italiana in R&S non è sostanzialmente inferiore a quella degli altri Paesi industrialmente avanzati: infatti “la spesa del settore pubblico, incluse le università, è pari in Italia allo 0,55 per cento del Pil, negli Stati Uniti allo 0,56 per cento e nel Regno Unito allo 0,61 per cento. Germania e Francia si collocano su livelli un poco più alti, 0,75 per cento e 0,78 per cento”. Conclusione: “il divario di spesa in R&S fra l’Italia e gli altri Paesi industrializzati non può quindi, se non in minima parte, essere attribuito al settore pubblico”. È invece “il settore privato, in particolare quello manifatturiero, il vero responsabile della scarsa propensione a investire in R&S. Una volta tanto, le cifre sono eloquenti. In proporzione del valore aggiunto manifatturiero, l’Italia spende solo il 2 per cento in R&S, quattro volte meno di Stati Uniti e Giappone e tre volte meno di Francia, Germania e Regno Unito”.
A questo punto è lecito chiedersi da cosa nasca questa bassa propensione dei nostri imprenditori a investire nel proprio futuro: la risposta di Faini (tratta, abbastanza ironicamente, da uno studio della Confindustria) è che “le nostre imprese non investono in R&S perché sono troppo piccole e soprattutto perché operano in settori a basso contenuto tecnologico”. [17] Il nesso tra la dimensione delle imprese e la scarsa innovazione è posto in luce anche da De Cecco, il quale afferma che “la ridotta dimensione obbliga le imprese ad affollarsi in settori a bassa intensità innovativa, e la bassa intensità innovativa induce la limitata crescita della produttività.” Non si tratta di opinioni campate per aria: l’indagine sulle imprese manifatturiere già più volte citata pone in luce come negli ultimi anni il numero delle piccole e medie imprese che hanno fatto innovazioni di prodotto e di processo sia diminuito, mentre è aumentato il numero di imprese sopra i 250 addetti (medio-grandi e grandi) che hanno realizzato tale tipo di attività innovativa. Alla luce di questi dati, appare quindi pienamente condivisibile l’affermazione del governatore della Banca d’Italia secondo cui “il modesto sviluppo della produttività è da riconnettere, in misura non secondaria, alla frammentazione del nostro tessuto produttivo”, ed anche la conclusione che ne trae: “una nuova fase di sviluppo richiede un riassetto dell’apparato produttivo e un aumento della dimensione delle imprese.” [18]
5. Conclusioni: al capolinea?
Che conclusioni trarre da quanto abbiamo visto? Certamente, è difficile esprimere giudizi improntati all’ottimismo. E si può capire anche il de profundis intonato da De Cecco sull’“Italia dei piccoli”: “è probabile che si concluda assai malinconicamente la fase dello sviluppo dal basso che ha sostituito quella dello sviluppo dall’alto nella vicenda storica del capitalismo italiano. Quel che tanti economisti, storici, politologi, sociologi non solo italiani hanno visto come una fortunata ’terza via’ va infatti rivelandosi per quello che alcuni hanno sempre saputo e detto in questi anni: un binario morto, magari più lungo del temuto, ma il cui termine sembra, nella impossibilità attuale e futura di svalutare nei confronti delle altre monete europee e di tenere il settore finanziario sigillato alla concorrenza straniera, ormai vicino”. Ma De Cecco non si limita a queste osservazioni, ed aggiunge alcune notazioni decisamente interessanti sulle strade che “saranno in tutta probabilità tentate” per tenere comunque in piedi una baracca sempre più traballante: ulteriore riduzione della tassazione delle imprese, attacco allo stato sociale, e infine la “soluzione più importante”, quella di “tenere bassi i salari”.
Come è evidente, non si tratta di previsioni astratte, ma di descrizioni concrete di quanto sta accadendo. Infatti questa, e non altra, è la “politica industriale” del governo Berlusconi: abbattere le tasse per le imprese (premiando evasori e “pirati della lira”), distruggere lo stato sociale privatizzandolo di fatto e di diritto, comprimere i salari (inclusi quelli differiti, ossia tfr e pensioni). Per quanto riguarda in particolare l’attacco al salario, osservando che si tratta di una realtà già in atto, De Cecco nota: “ora che i cambi sono fissi e ancor più a partire dal primo gennaio 2002, è possibile vedere che i salari italiani sono a livello assoluto assai inferiori di quelli francesi e specialmente tedeschi”. [19] Si può aggiungere che questa affermazione è stata confermata e superata dai fatti: una ricerca pubblicata dalla banca svizzera UBS nel gennaio 2004 ha infatti mostrato che il potere d’acquisto delle buste paga italiane si colloca invariabilmente agli ultimi posti delle classifiche della zona euro, seguita soltanto dal Portogallo e (in qualche caso) dalla Grecia.
Verrebbe da chiedersi se è tutto qui, il “miracolo italiano” di Berlusconi & Soci. In verità, c’è ben poco da aggiungere, se non ricordare la farsa del protezionismo “alla Tremonti” – con tanto di denuncia isterica del “pericolo giallo”. Intendiamoci: il fatto stesso che risorgano queste tentazioni è la migliore denuncia della gravità della situazione in cui versa un sistema industriale che, dopo essersi impiccato a settori nei quali domina l’effetto prezzo, ha scoperto (con stupefacente stupore) che al mondo c’è qualcuno che su prodotti maturi riesce a praticare prezzi ancora più bassi dei suoi. E poche cose esprimono la triste parabola del “made in Italy” come la raffica di articoli di contenuto sostanzialmente protezionistico sfornati in pochi mesi da uno dei suoi più appassionati esegeti. [20] Il punto però è che il protezionismo anticinese non rappresenta soltanto un rimedio peggiore del male, ma anche una strada concretamente impossibile a praticarsi, visto che ormai da decenni nessuno Stato dell’odierna Unione Europea può decidere da solo la politica commerciale nei confronti di un paese terzo. [21] Né va dimenticato che altri Paesi europei, dotati di classi dominanti più lungimiranti delle nostre (e forti di specializzazioni produttive più avanzate), vedono nella Cina principalmente una grande riserva di domanda mondiale, anziché un pericolo dal lato dell’offerta di beni.
E allora viene il sospetto che agitare demagogicamente questo tema (così come del resto l’“affaire Parmalat”) sia nulla più che un ennesimo tentativo di distrarre l’opinione pubblica e i lavoratori dalle cose importanti. Cioè dai disastri di questo governo, dal fatto che invece del “miracolo” promesso sta prendendo forma una vera e propria catastrofe industriale e sociale, e – soprattutto – dal fatto che il conto di tutto questo, ancora una volta, si tenta di farlo pagare ai lavoratori.
A questo riguardo la partita è ancora aperta. Ma almeno due punti fermi possiamo fissarli. Il primo: se c’è una cosa che la “favola senza lieto fine” delle PMI ci ha insegnato, è proprio il fatto che la compressione dei salari, la “flessibilità del lavoro” come ricetta universale, non solo non hanno giovato all’economia italiana, ma hanno contribuito a spingerla nel vicolo cieco di un modello competitivo perdente (scoraggiando l’innovazione, la conquista di posizioni nei settori di avanguardia, ecc.). Il secondo: poche cose sono certe come il fatto che in tutti questi anni il coperchio sulla pentola dei salari è stato tenuto fin troppo premuto.
Alla luce di quanto si è provato ad argomentare in queste pagine, si può affermare che oggi è importante, anzi essenziale, che quel coperchio salti. È certamente essenziale per i lavoratori. Ma è essenziale anche al fine di evitare l’ulteriore degrado del sistema industriale e produttivo del nostro Paese.
[1] Le due citazioni sono tratte da: M. Fortis, Il made in Italy, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 37; “La Cina affonda il made in Italy”, il Sole 24-Ore, 3 dicembre 2003.
[2] F. Galimberti, L. Paolazzi, Il volo del calabrone. Breve storia dell’economia italiana nel Novecento, Firenze, Le Monnier, 1998, p. 1.
[3] Al riguardo vedi almeno K. Marx, Il Capitale, libro III, cap. 13 e e cap. 15 (tr. it. di M. L. Boggeri, Roma, Editori Riuniti, 1968, p. 267 e 303).
[4] S. Brusco, S. Paba, “Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli anni novanta”, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Roma, Donzelli, 1997, p. 320.
[5] Cfr. rispettivamente F. Galimberti, L. Paolazzi, op. cit., p. 280; S. Brusco, S. Paba, op.cit., pp. 268 sg.; M. Fortis, Il made in Italy, cit., p. 44.
[6] Dati riportati in S. Brusco, S. Paba, op.cit., pp. 271; U. Bertone, Capitalisti d’Italia, Novara, Boroli, 2003, p. 113.
[7] P. Ciocca, L’economia italiana: un problema di crescita, relazione letta alla Società Italiana degli Economisti, Salerno, 25 ottobre 2003, n. 25.
[8] Vedi S. Brusco, S. Paba, op.cit., pp. 298-9.
[9] Per un eloquente esempio di queste difficoltà si vedano le pagine 272-279 del già citato saggio di Brusco e Paba, e i dubbi che onestamente i due autori si pongono a p. 293.
[i] Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, 31 maggio 2003, pp. 15-16.
[i] Relazione del governatore sull’esercizio 2002, maggio 2003, pp. 181, 114. Si veda anche la tabella sul grado di utilizzo degli impianti nei diversi comparti, riportata nell’Appendice statistica alla relazione, p. 65.
[10] V. Chierchia, E. Pagnotta, “Il made in Italy soffre ancora”, il Sole 24-Ore, 23 gennaio 2004.
[11] P. Ciocca, L’economia italiana, cit., pp. 1, 3, 8.
[1] S. Brusco, S. Paba, op.cit., pp. 324 e 308. Gli autori notano inoltre che i differenziali sono certamente più alti ancora, in quanto non si hanno dati relativamente alle imprese sino a 20 addetti, pur aggiungendo che “molti indizi inducono a pensare che nei distretti industriali i differenziali salariali siano nettamente più bassi”.
[2] Osservatorio sulle piccole e medie imprese, Indagine sulle imprese manifatturiere. Ottavo rapporto sull’industria italiana e la politica industriale, Roma, Capitalia, dicembre 2002, pp. 22-3, 31 [alcuni corsivi sono redazionali].
[3] M. Sarcinelli, “Imprese, la sfida di essere grandi”, il Sole 24-Ore, 22 febbraio 2003.
[i] Indagine sulle imprese manifatturiere, cit., p. 7. Del pari significativo che le uniche imprese a fare eccezione siano proprio quelle grandi.
[4] Vedi: M. Fortis, cit., p. 74; Indagine sulle imprese manifatturiere, cit., p. 34; Relazione sull’esercizio 2002, cit., pp. 260, 268. Considerazioni ulteriori meriterebbero le modalità di erogazione del credito, che in Italia avvengono attraverso il “multiaffidamento” (ossia il rapporto contemporaneo con più banche, al fine di poter operare in maniera meno trasparente), ed alle prospettive derivanti dall’adozione dei nuovi requisiti patrimoniali previsti dall’accordo internazionale che va sotto il nome di “Basilea II”: i due temi sono legati tra loro, nel senso che l’accordo, basando in misura maggiore la valutazione del merito di credito su elementi oggettivi (ossia quantitativi), rafforza l’esigenza di una maggiore trasparenza dei bilanci delle imprese. Precisamente per questo motivo esso è così avversato in Italia dalle PMI e dal commercialista che le rappresenta al governo.
[5] P. Ciocca, L’economia italiana, cit., p. 4.
[6] M. De Cecco, “Piccole imprese, banche, commercialisti. Note sui protagonisti della seconda industrializzazione italiana”, relazione al convegno L’economia italiana e l’Europa. Vent’anni di trasformazioni, crisi e opportunità, Urbino, 14 marzo 2003, p. 11 (vedi anche pp. 5-6).
[7] L’apertura di un’impresa italiana ad investitori istituzionali è evento così raro che merita articoli (tra l’ammirato ed il perplesso) sui giornali. Si veda ad esempio F. De Rosa, “Ai fondi i tesori del made in Italy”, il Corriere della Sera, 10 novembre 2003.
[8] K. Marx, Il Capitale, l. III, cap. 15, cit., p. 303. Coerentemente, Marx vedeva nelle “imprese azionarie capitalistiche” una forma superiore di configurazione societaria rispetto alle imprese di proprietà di un singolo capitalista: v. Il Capitale, l. III, cap. 27, partic. pp. 522-3.
[9] G.M. Gros-Pietro, E. Reviglio, A. Torrisi, Assetti proprietari e mercati finanziari europei, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 347 [corsivi redazionali]. È appena il caso di notare come il passo citato riprenda di fatto (consapevolmente o meno) l’analisi marxiana.
[10] P. Ciocca, L’economia italiana, cit., p. 6. A fugare ogni dubbio al riguardo basterebbero i dati riportati dall’autore alla nota n. 18 della sua relazione.
[11] Questo e non altro è il significato concreto di quanto si legge in un passo della Relazione sul 2002: “La moderazione salariale e la maggiore flessibilità dei rapporti di lavoro sono da alcuni anni all’origine della crescita del numero di occupati, sebbene soprattutto in attività caratterizzate da bassi livelli di produttività” (p. 94; corsivo redazionale).
[i] Considerazioni finali, cit., p. 15.
[12] S. Brusco, S. Paba, op.cit., p. 265.
[13] Nelle Considerazioni finali, cit., p. 20.
[14] Vedi Relazione sul 2002, cit., pp. 139-40, 149; S. Tamburello, “Economia sommersa a quota 317 miliardi nel 2003”, Corriere della Sera, 25 agosto 2003. Cfr. anche F. Schneider – D.H. Ernste, “Shadow Economics: Size, Causes and Consequences”, in Journal of Economic Literature, 2000, p. 104.
[15] Unica eccezione, le imprese dagli 11 ai 20 addetti, in flessione ad “appena” il 27,6% del totale: vedi, anche per ulteriori dati, l’Indagine sulle imprese manifatturiere, cit., pp. 26-7.
[16] U. Bertone, Capitalisti d’Italia, cit., p. 75.
[17] R. Faini, “Ma il pubblico non ha colpe”, 1° luglio 2003 (l’articolo è scaricabile dal sito www.lavoce.info).
[18] Vedi, rispettivamente: M. De Cecco, “Piccole imprese, banche, commercialisti”, cit., p. 10; Considerazioni finali, cit., pp. 20-21.
[19] M. De Cecco, “Piccole imprese, banche, commercialisti”, cit., p. 12.
[20] Mi riferisco ad alcuni articoli di M. Fortis: “Le difese possibili” (con A. Quadrio Curzio); “Un allarme sottovalutato”, “La Cina affonda il made in Italy”, usciti su il Sole 24-Ore rispettivamente il 3 settembre, il 19 settembre ed il 3 dicembre 2003.
[21] Vale inoltre la pena di ricordare che le posizioni di mercato italiane,ad es. in Germania, sono minacciate da vicino anche e soprattutto da produttori dell’Est europeo (ormai di fatto membri dell’Unione Europea): in proposito vedi Relazione, cit., pp. 90, 116-7.
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