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Flat Tax e fuga di capitali: c’era una volta la progressività delle tasse

Recita l’articolo 53 della Costituzione italiana: “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Ovvero la spesa pubblica – quindi la sanità, l’istruzione, le infrastrutture etc. – si finanzia principalmente tramite tributi che, secondo la Costituzione, devono basarsi sulla capacità dei cittadini di contribuire, ovvero sul loro livello di benessere economico. Non solo, ma al crescere della capacità contributiva del contribuente deve crescere non soltanto l’imposta da versare in termini assoluti ma anche la percentuale di imposte pagate rispetto al proprio reddito (l’aliquota fiscale). È proprio questo, del resto, il significato di progressività dei tributi richiamato nel secondo comma dell’articolo 53: più si è ricchi più cresce la quota parte di reddito da pagare come imposta allo Stato.

Dopo un trentennio di stentata e parziale attuazione del criterio di progressività dal 1948 in poi, fu la Riforma tributaria del 1974, con l’Istituzione dell’IRPEF (imposta personale sul reddito), a disegnare quel modello già definito in via generale dai padri costituenti. Quella riforma nacque da un clima sociale e da una cultura politica che, anche nelle sue dominanti sfaccettature debolmente riformistiche (non certo ostili al sistema economico capitalistico in quanto tale), poneva comunque il tema della riduzione delle disuguaglianze sociali generate dal capitalismo come cruciale nell’agenda politica. La riforma del 1974 varata ai tempi del governo democristiano Rumor IV ebbe non a caso un appoggio politico fortemente trasversale.

L’Irpef al principio prevedeva 32 scaglioni, con aliquota del 10% per il più basso e del 72% per il più alto e una forte distanza tra i redditi ricompresi nelle fasce basse e quelli ricompresi nelle più alte. Tradotto in cifre, se il reddito annuo di una persona era di due milioni di lire (la soglia che divideva il primo e più basso scaglione dal secondo), il 10%, 200.000 lire, rappresentavano l’ammontare da pagare in tributi. Se una persona guadagnava due milioni e mezzo annui, e quindi ricadeva nel secondo scaglione, doveva pagare il 10% di due milioni più una aliquota maggiore – il 13% – di mezzo milione (due milioni e mezzo meno due milioni, la porzione di reddito tassata all’aliquota minima). E così a salire, fino al 72%, l’aliquota prevista sull’ultimo scaglione, cioè i più ricchi. Un esempio cristallino di forte progressività.

La nascita dell’Irpef contribuì a spostare il carico tributario dalle imposte indirette (che gravano principalmente sui consumi) a quelle dirette (calcolate in relazione al reddito ed al patrimonio) e a trasformare l’imposta diretta per eccellenza (quella sul reddito) in un’imposta fortemente progressiva. Si giunse così a definire un sistema tributario deputato a dare luogo ad un sensibile effetto redistributivo della ricchezza dai più ricchi ai più poveri.

Già a partire dalla metà degli anni ’80, ma soprattutto dal decennio successivo la progressività delle imposte venne gradualmente e poi drasticamente messa in discussione.

In primo luogo, l’Irpef è stata trasformata in un’imposta via via meno progressiva: riduzione degli scaglioni, accorciamento della distanza tra i redditi afferenti allo scaglione più basso e a quello più alto, diminuzione delle aliquote degli scaglioni più alti e aumento di quelle degli scaglioni più bassi. Dai 32 del 1974 si è giunti ai soli 5 di inizio anni 2000, con un forte ridimensionamento della forbice tra le aliquote, compresa tra il23% e il 43%. Ovvero il contribuente più povero nel 1972 pagava il 10% di imposte sul reddito mentre il più ricco arrivava a pagare il 72%. Quarant’anni dopo le percentuali sarebbero mutate in modo tale da ridurre lo scarto in modo eclatante.

In secondo luogo, si sono avuti continui aumenti delle imposte indirette, quelle che colpiscono a pioggia senza discriminare il povero dal ricco, poiché tassano componenti come i consumi. Un esempio lampante di imposta in continuo aumento da anni è l’IVA, la più amata dall’Unione Europea, prodiga e solerte nel raccomandare con una certa frequenza un suo aumento. Allo stato attuale, il 22% del prezzo base della maggioranza dei beni di consumo è destinato a pagare questa imposta, e rimane 22% che tu sia molto ricco o molto povero. Non è difficile capire, allora, come imposte di questo tipo abbiano spesso un impatto persino regressivo, anziché progressivo, poiché in termini percentuali un povero consuma più di un ricco.

Nel contempo, sono diminuite nel ventennio più recente le imposte che colpiscono le società di capitali, mentre i redditi finanziari (in parte già esclusi dall’imposta progressiva della riforma del 1974) continuano a godere di tassazioni agevolate e non progressive tramite cedolari secche, così come le entrate da affitto di un immobile.

Nel complesso, tenendo conto di effetti diretti e indiretti e della mutazione del peso delle imposte indirette rispetto a quelle dirette, risulta che i redditi da lavoro dipendente e autonomo, bassi e medi, siano quelli relativamente più tartassati nel sistema fiscale attuale, mentre i redditi da capitali e in generale i redditi più alti hanno conosciuto negli ultimi 30 anni una progressiva riduzione del carico fiscale.

È sulla scia di questo mutamento di lunga durata che si giunge alla proposta estrema della Flat Tax (Lega e Forza Italia) oppure alla simile ma più attenuata idea di ulteriore riduzione delle aliquote (+Europa). Tutte idee che proseguono il ben avviato processo di contrazione della progressività dei tributi, già intrapreso e approvato trasversalmente da governi di centro-destra e centro-sinistra dagli anni ‘90.

La Flat Tax, tradotta in italiano, è l’aliquota “piana” o molto meglio l’aliquota unica. Come molti termini economici che fanno male, “aliquota unica” è assai più comprensibile per il grande pubblico rispetto al più sfuggente termine inglese, motivo per cui forse i suoi sostenitori nel mondo sono soliti invocarla tramite il consueto anglicismo disorientante. Aliquota unica: ovvero ricchi, ricchissimi, poveri, poverissimi, ceto medio, tutti insomma pagano la stessa percentuale di imposta. Chi percepisce 2 milioni di euro l’anno paga il 15% (o il 23% o quello che sia) e la stessa percentuale la paga chi a fine anno arriva magari a 15.000 o 20.000 euro lordi. Vero è che i fautori di questa riforma parlano di una fascia di esenzione a salvaguardare una progressività minima (anche per evitare di incorrere nella palese incostituzionalità). Ma anche con un’alta fascia di esenzione la previsione di aliquota unica ridurrebbe comunque in modo drastico la già ridottissima differenziazione dell’ammontare d’imposta da pagare tra i diversi livelli di reddito. Niente di più e niente di meno del compimento del processo in atto da tre decenni. Ricchi e poveri si avviano a pagare in termini proporzionali imposte sempre più simili (senza neanche parlare ovviamente dell’evasione, che in termini relativi interessa assai più i redditi alti e altissimi che i redditi bassi o medi).

Proposte del genere vengono naturalmente rese accattivanti dal fatto che il calo d’imposta (è il caso della proposta di abbassamento al 15% della Lega) avrebbe un effetto anche sui redditi medi e bassi. Tale effetto sarebbe, però, irrisorio rispetto a quello che avrebbe per i redditi medio-alti ma soprattutto molto alti. Si corteggia il povero con le briciole per dare al ricco la torta nuziale. Nulla di nuovo sul fronte della strategia del consenso.

Ma le classi subalterne, ovvero l’enorme maggioranza di cittadini di censo medio e basso, coloro che ricchi non sono, sanno bene che il sistema tributario può, deve anzi, essere cambiato diminuendo il peso fiscale sulle proprie tasche senza alcun bisogno di alleggerire quelle di chi invece di denaro ne ha a iosa.

Esperti economisti del campo obietterebbero che è impossibile! Siamo nella globalizzazione e non puoi far pagare troppe tasse ai detentori di grandi capitali altrimenti se ne vanno via e il paese va a scatafascio. E’ il mercato!

Uno degli argomenti più frequentemente utilizzati dal legislatore per giustificare l’erosione della progressività delle imposte, in effetti, è stata la necessità di adeguare il sistema alla competitività internazionale in un contesto di economia aperta ove i capitali sono liberi di migrare da un paese ad un altro e le merci prodotte in qualsiasi luogo del mondo devono competere sui mercati globali.

È noto, infatti, che i soggetti economici più mobili e più in grado di minacciare una delocalizzazione della propria attività con conseguenze sociali enormi (vedasi la cronaca di questi giorni) sono coloro che detengono ingenti capitali (società di capitali, capitali finanziari). Sono proprio costoro che, se dovessero subire una tassazione troppo superiore a quella di altri paesi potrebbero da un giorno all’altro spostare i propri interessi economici, capitali, investimenti e financo attività industriali e infrastrutture altrove, dove il fisco è più generoso con i redditi alti.

Pensare dunque di riformare verso una maggiore uguaglianza e verso un recupero della perduta progressività dei tributi il sistema fiscale senza mettere in radicale discussione il dogma dell’economia aperta è illusorio nella migliore delle ipotesi, velleitario e propagandistico nella peggiore. Qualcuno, tra politici ed economisti, ha talvolta negli ultimi anni osato alzare la voce contro gli eccessi delle disuguaglianze reclamando tra le altre ricette anche maggiore equità fiscale. Soltanto pochissimi tra questi, tuttavia, hanno accompagnato questa benemerita intenzione con una schietta analisi critica del micidiale vincolo esterno posto dall’apertura delle frontiere commerciali e dei flussi di capitale. Un vincolo che agisce come un macigno sul grado di libertà di un paese, formalmente sovrano, di dotarsi di un proprio percorso di sviluppo economico e di perseguire con i mezzi opportuni la giustizia sociale, ivi compresa la giustizia fiscale.

È infatti inevitabile, in generale, che in un contesto di libera circolazione di merci e capitali aumenti in modo esponenziale la pressione al ribasso su diritti sociali e del lavoro, sulle normative di tutela ambientale, sulla regolamentazione dei mercati, sulla forza dei sindacati e sulla sovranità fiscale e tributaria di un paese.

Semplicemente perché ad ogni eventuale tentativo di costringere il capitale entro vincoli, normative, trattative conflittuali e sindacali ed obblighi tributari e giuslavoristici, il capitale è libero di fuoriuscire dal paese senza alcun costo (si chiama libera circolazione di capitali). Allo stesso modo, l’altro pilastro del dogma, la libera circolazione di merci, produce la necessità per il sistema produttivo di un paese di sostenere la concorrenza di paesi ove le merci vengono prodotte con costi del lavoro e fiscali più bassi. Motivo per cui il mondo imprenditoriale sarà ancor più spinto (in parte anche logicamente, per non perdere terreno sui mercati internazionali e interni) a minacciare delocalizzazioni a fronte di normative giudicate troppo rigide e costose, non competitive cioè con altre messe in diretta concorrenza con la propria.

Ecco quindi che la libertà di definire un sistema tributario più equo, di tornare alla progressività costituzionale delle imposte disegnata con la riforma del 1974, di tassare maggiormente i capitali finanziari speculativi e le società di capitali, di diminuire il carico fiscale sui ceti medi e bassi, viene in gran parte meno nell’attuale contesto di economia integralmente aperta disegnato dall’architettura dei Trattati europei (entro l’area UE) e dai trattati commerciali internazionali approvati dagli anni ’90 e dopo il 2005.

In questo senso vi è piena specularità tra il fanatico europeismo dei Trattati di partiti come il PD e l’apparente e retorico euro-scetticismo di forze politiche come la Lega. Il programma economico di quest’ultima è infatti quello di una correzione degli eccessi dell’austerità che sta penalizzando financo gli interessi di buona parte della classe dei capitalisti, non tuttavia a favore di un sistema economico più giusto e solidale, ma al fine di transitare dal sistema di austerità fiscale ad un sistema più elastico, ma pur sempre pienamente aperto ai movimenti di capitale e alla concorrenza fiscale al ribasso tra paesi. La Flat Tax leghista è quindi del tutto coerente con questo programma di uscita liberista dall’austerità recessiva. Così liberista che non pone affatto in dubbio il dogma fondativo della libera circolazione di capitali e merci (salvo tuonare contro la sola circolazione di persone, ma per quello basta essere razzisti, non è richiesto sincero spirito critico contro le istituzioni europee).

Al contrario, solo un pieno ritorno al controllo dei flussi di merci e capitali, che implica di per sé la fuoriuscita dai Trattati europei e da tutti i trattati di libero commercio internazionale, può permettere la ridiscussione radicale del sistema economico in cui viviamo, ivi inclusa la conformazione del sistema tributario italiano a quei principi di equità e progressività ormai perduti.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.wordpress.com/

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