La guerra commerciale globale registra ora la sua apertura ufficiale. Donald Trump ha deciso di applicare dazi sui prodotti cinesi per almeno 60 miliardi di dollari (“i primi di una serie”). Ma soprattutto intende restringere di molto le possibilità di investimento per i capitali (prima di tutto cinesi) negli Stati Uniti.
La ragione ufficiale è persino banale: gli Usa esportano annualmente in Cina merci per 130 miliardi, mentre importano per oltre 500 miliardi. Lo sbilancio a favore di Pechino è una conseguenza diretta delle “delocalizzazioni” avvenute a cavallo degli anni ‘90 e i primi dieci del nuovo millennio, quando la “globalizzazione” a guida statunitense sembrava un processo naturale, inarrestabile, “progressivo”.
Ogni processo storico e ogni affermazione di interessi particolari ha però il suo contraltare, gli “effetti collaterali indesiderati” che all’inizio sembravano irrilevanti. L’industrializzazione a tappe forzate della Cina e di molti altri paesi del terzo mondo asiatico ha permesso di abbassare il prezzo di quasi tutte le merci-salario (quelle indispensabili alla sopravvivenza dei lavoratori e delle loro famiglie), e con ciò stesso i salari reali in tutto l’Occidente capitalistico. Ma contemporaneamente ha ridisegnato la mappa industriale di tutto il pianeta, facendo aumentare enormemente il peso specifico di aree un tempo depresse mentre calava quello dei “paesi più industrializzati”.
Al centro di questo processo sono stati soprattutto gli Usa, centro motore di tutte le scelte globali negli ultimi 60 anni. Paese che soltanto ora deve fare
i conti con gli squilibri interni prodotti dal suo stesso successo. L’America di oggi è un paese che produce ed esorta ben poco: armi, soprattutto, e tecnologie avanzate che però mantengono con sempre maggiore difficoltà il primato rispetto alla concorrenza. L’assoluta predominanza in campo finanziario ha mascherato per un po’ il declino, ma la crisi – ormai ultradecennale – ha per un verso favorito la concentrazione della ricchezza (i ricchi, soprattutto finanzieri, sono sempre più ricchi…) e quindi fatto esplodere la povertà di massa (circa 100 milioni di americani sono a tutti gli effetti disoccupati o con redditi quasi inesistenti).
La crisi sociale e industriale degli Stati Uniti è insomma alla base dell’esplosione del fenomeno Trump, perché “America first” non è tanto un concetto “ideologico”, quanto la trasformazione in programma politico di una “necessità nazionale” di mantenere la posizione egemone sul mondo. Per poterlo fare, la popolazione deve percepire che la potenza globale produce più benessere all’interno. E, se non si vuole regalare reddito in cambio di nulla, bisogna riportare in territorio yankee una parte delle produzioni dismesse e ormai padroneggiate dalla concorrenza.
Quindi dazi e protezione della tecnologia avanzata (è prassi capitalistica normale quella di comprare aziende, impossessarsi del know how e poi trasferire la produzione dove il costo del lavoro è minore).
E’ questa “necessità nazional-imperiale” ad aver selezionato il miliardario col ciuffo e la giunta militare che sta attualmente occupando la Casa Bianca. Ed è questa squadra scombiccherata, in perenne ristrutturazione (ieri è stato “assunto” a capo della “sicurezza” un fan della guerra come Bolton) a dover trovare la strada per restituire agli Stati Uniti una leadership industrialmente giustificabile.
Se si guarda alla strategia dei dazi protettivi inaugurata da Trump si vede chiaramente all’opera più una logica di guerra geostrategica che non una linea economicamente sensata. Esenzione temporanea per gli “amici” (Canada e Messico, contoterzisti di confine), ed anche per qualche importante paese Sudamericano (l’Argentina e il Brasile riconsegnati alla destra più corrotta); apertura di trattative con l’Unione Europea, ovvero con l’area industrializzata che più aveva guadagnato dalla politica mercantilistica ordoliberista imposta soprattutto dalla Germania (contrazione della domanda interna tramite politiche di austerità e sviluppo orientato dalle esportazioni).
Una strategia che mette fine esplicitamente all’era del “libero commercio” – proprio ieri un tronfio Trump ha definito “un disastro” la governance attuata dal Wto – e apre la guerra del tutti contro tutti, inquadrati però in aree di dimensione almeno continentale.
Dovrebbe essere inutile ricordare che, nella Storia, le guerre commerciali hanno sempre fatto da apripista per quelle decisamente più guerreggiate; ma questi sono tempi in cui la memoria collettiva – anche “a sinistra” – sembra particolarmente spenta.
Contrariamente ai giorni dell’annuncio dei dazi Usa su acciaio e alluminio (poche settimane fa, mica un secolo…), i mercati finanziari hanno reagito malissimo, con crolli dei titoli più o meno accentuati. Ma anche qui si deve sottolieare una differenza rispetto al recente passato, quando una brutta notizia si diffondeva in modo sostanzialmente simile in tutto il mondo (crolli di borsa più o meno della stessa entità).
Stavolta hanno reagito malissimo le piazze asiatiche, ovvero quelle dei paesi colpiti in prima persona dai dazi Usa (Shangai ha chiuso a -3,39%, Shenzhen a -4,49%, a Tokyo il Nikkei ha perso il 4,51%). Mentre quelle europee, con alle spalle economie che verranno forse temporaneamente esentate e che comunque pretendevano giù prima una risposta protezionistica anticinese di concerto con gli Usa, hanno reagito con più aplomb: alle ore 11 Milano cede l’1,70%, Londra lo 0,82%, Francoforte l’1,6% e Parigi l’1,56%. Non stranamente, erano andate peggio le borse Usa ieri sera, con il Dow Jones a -3 e il Nasdaq a -2,5%.
La spiegazione dovrebbe essere ovvia: Pechino risponde agli Usa mettendo nel mirino 128 prodotti americani per un totale di 3 miliardi di dollari nel caso non maturi un accordo con Washington. Una volta che si apre una guerra globale, nessuno può pensare di non subire perdite, almeno nell’immediato.
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