Da tempo cerchiamo di spiegare che “i soldi ci sono”, come paese e come entrate dello Stato. Ci sono per fare politiche sociali e investimenti produttivi, per far sviluppare il paese in modo armonico e senza le attuali diseguaglianze mostruose.
Quei soldi accantonati ogni anno (“saldo primario”) vengono però usati per tutt’altro, in omaggio a un paradigma di pensiero (il mercantilismo ordoliberista) che copre “virtuosamente” interessi materialissimi. Di imprese multinazionali quasi mai italiane. Di una finanza speculativa che solo in parte ha basi nelle nostre città. Di Stati europei che si mantengono grazie ai nostri “sacrifici”.
Il tutto in nome dell’”Europa”, che è tutt’altra cosa rispetto all’Unione Europea (così come “l’Italia” è fortunatamente ben diversa dallo Stato italiano e dalla sua degradata classe dirigente).
Spesso, nello sforzo di farci capire, siamo stati accusati di fare “ideologia”. Anche quando indichiamo meccanismi concreti, niente affatto eterei come i concetti astrusi.
Spesso abbiamo utilizzato materiali e analisi provenienti anche dai media mainstream, o comunque della stampa economica specializzata. Proprio per costringere tutti a guardare la luna (la realtà del paese e dei meccanismi imposti dai trattati europei) invece che il dito (le nostre modeste risorse giornalistiche).
Tra i diversi analisti, ancora una volta è Guido Salerno Aletta – con un editoriale su TeleBorsa – a fornirci dati che dimostrano l’esatto opposto rispetto alla narrazione sulle “cicale italiane”. E che inchiodano il mercantilismo tedesco alla responsabilità di essere la causa della caduta dell’economia europea. E di quella italiana in particolare, visto che nel corso degli ultimi tre decenni – dagli accordi di Maastricht in poi – gran parte della capacità produttiva di questo paese è stata ridisegnata per diventare complementare (e subordinata) alle filiere produttive tedesche.
Una scelta miope e suicida, sparagnina come capacità di investimento e soprattutto come capacità di visione; tutta giocata sulla compressione salariale e dei consumi interni per poter “competere” sui mercati globali.
Poi capita – com’è capitato – che la “globalizzazione” vada a sua volta in crisi e quindi che chi aveva puntato tutto sulle esportazioni si ritrovi improvvisamente con (molti) meno sbocchi di mercato. E non può neanche vendere all’interno, perché i salari sono diventati troppo bassi per assorbire merci che non possono più andare altrove.
E dire che stiamo parlando dell’Europa (stavolta è giusto usare questo termine), un mercato di mezzo miliardo di persone, in teoria ai vertici del benessere mondiale!
Oltre alla Germania, però, emerge un altro responsabile: Confindustria, ossia l’imprenditoria italiana.
Fino agli anni ‘80 – Fiat e Pirelli a parte – questa “classe dirigente” contava abbastanza poco nella politica economica, sovrastata com’era dalla centralità delle imprese pubbliche in settori strategici (Eni, Enel, Iri, Fincantieri, Italsider, Alitalia, Telecom, le cinque banche di “interesse pubblico”, ma anche i panettoni Motta e Alemagna).
Poi le “privatizzazioni”, volute dall’Unione Europea e gestite alternativamente da centrodestra (Berlusconi) e centrosinistra (Prodi, D’Alema, Versani, ecc).
Et voilà… Una classe di mezze cartucce si ritrova a speculare su un patrimonio produttivo invidiabile ed invidiato (e competitivo). Se ne appropria, lo spezzetta, lo vende, rivende e lo svende, con l’occhio tutto ai patrimoni personali (Colaninno, Tronchetti Provera, Riva, ecc) e nulla agli “interessi del paese”. La parte che resta impegnata nella produzione – proprio come il corrispettivo tedesco – preme per avere salari bassi, niente tutele del lavoro, nessun diritto sindacale reale, niente spese per ricerca e sviluppo.
Ottiene tutto, in abbondanza e sempre.
Il risultato si vede oggi: brevetti quasi ridotti a zero, l’innovazione rivolta solo a risparmiare lavoro umano, l’università allo sbando, la scuola sulla via dello smantellamento, i lavoratori ridotti a schiavi (orari folli, contratti tutti precari e salari al di sotto delle possibilità di riproduzione), natalità insufficiente a compensare i decessi, “guerra tra poveri” per tenere sotto controllo il malessere popolare…
Un paese sulla via della distruzione, “grazie” alla priorità data agli interessi delle imprese private.
Buona lettura.
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I nuovi Cinesi? Siamo noi, gli Italiani
Guido Salerno Aletta
A guardare i numeri, viene da ridere: una volta era la Cina che sfruttava i mercati esteri per crescere, con la bilancia dei pagamenti correnti in forte attivo.
Ma, a partire dal 2016, i rapporti si sono invertiti: ora siamo noi a battere la Cina quanto a saldo attivo dei pagamenti correnti con l’estero. Inutile parlare della Germania, che in questi anni ha macinato un record dopo l’altro, fondando il paradigma della sua crescita sul mercantilismo: conquistare i mercati esteri con una produzione ineccepibile per qualità e prezzi.
Nel corso degli anni, dopo la crisi, la Cina ha capovolto il suo paradigma di crescita.
Mentre nel 2009 il saldo attivo cinese era pari al 4,8% del PIL e quello italiano era negativo per l’1,9% del PIL, con +243 miliardi di dollari per la Cina e -41 miliardi per l’Italia, nel 2018 la situazione si è completamente ribaltata: l’avanzo della Cina si è progressivamente ridotto, arrivando appena allo 0,7% del PIL, mentre l’Italia ha compiuto una sterzata straordinaria, girando in positivo fino ad arrivare al +2,8% del PIL nel 2017 ed al +2% nel 2018. In proporzione al PIL, un risultato tre volte superiore. I conti esteri della Germania, assomigliano tantissimo a quelli della Cina alla fine degli anni 2000, tutti sbilanciati nella crescita attraverso le vendite all’estero.
In valori assoluti, il saldo attivo cinese di parte corrente è stato nel 2018 di 97,5 miliardi di dollari, mentre quello italiano è stato di 41,3 miliardi. In termini percentuali, la Germania è arrivata ad un saldo attivo pari all’8,1% del PIL. In valori assoluti, il saldo attivo tedesco è stato di 327 miliardi di dollari, mentre quello cinese è arrivato ad appena 98 miliardi: più del triplo!
In pratica, la Cina ha spostato tempestivamente l’asse della sua crescita dal mercato estero a quello interno, ed ora risente pochissimo della contrazione che deriva dalla congiuntura mondiale negativa, innescata dalla politica monetaria meno accomodante da parte delle banche centrali degli Usa e della UE e dalla guerra commerciale dichiarata dagli Usa contro la Cina.
La Germania, che invece ha puntato tutto sempre sull’export, con un PIL che dipende ormai per quasi il 50% dalle vendite all’estero, è entrata in una crisi assai profonda, trascinando con sé l’Italia, che le fa da subfornitrice nel settore della meccanica. Se crolla il mercato dell’export della Germania, noi veniamo necessariamente coinvolti.
Questo è il paradosso: mentre per anni abbiamo unanimemente criticato la politica economica e sociale cinese, perché faceva dumping con i bassi salari pur di vendere all’estero, l’Unione europea ha imboccato la stessa strada, a partire dalla Germania, con le Riforme Hartz: mercato del lavoro flessibile, in entrata ed in uscita, precarizzazione del lavoro ed estensione della percentuale dei lavori part-time.
L’Italia ha fatto lo stesso, con una serie di riforme del mercato del lavoro, cominciando da quella sostenuta da Treu, proseguendo con quella Biagi, per finire con il Job Act che ha abrogato definitivamente le tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Il licenziamento per ragioni economiche non è soggetto a nessun giudizio giurisdizionale e non esiste più la reintegrazione nel posto del lavoro se non per cause oggettive di discriminazione personale.
Nel contesto attuale di deglobalizzazione, la strategia americana che mira a ricondurre all’interno quote crescenti di produzione per ridurre gli squilibri strutturali dei conti con l’estero, occorrerebbe aumentare la domanda interna, invece di orientare la politica economica verso l’offerta competitiva sull’estero. Servirebbero salari più alti, mantenendo stabile l’inflazione e riassorbendo gli attivi commerciali strutturali. Dovremmo imitare i cinesi, che hanno adottato questa strategia a partire dal 2009, mentre ci siamo orientati verso politiche mercantiliste, abbassando il costo del lavoro e precarizzandolo.
Gli europei, soprattutto i Tedeschi e gli Italiani, dopo il 2009 si sono messi a rincorrere la Cina con un modello che la Cina stessa abbandonava, riconoscendone con lungimiranza la insostenibilità.
Non è casuale, dunque, che ora l’economia italiana e quella tedesca, le più esposte alle tendenze dei mercati internazionali, siano quelle ora più colpite dal rallentamento della congiuntura globale, innescata dall’irrigidimento delle politiche monetarie della Fed e della BCE e dal conflitto commerciale tra Usa e Cina.
Ed i lavoratori italiani, in un sistema manifatturiero strutturato come subfornitore dell’industria tedesca, fanno da cinesi anche per la Germania.
Facciamo i cinesi, anche per l’industria tedesca.
I nuovi Cinesi?
Siamo noi, gli Italiani.
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