Premessa. Sinteticamente, il capitalismo si caratterizza per essere un sistema produttivo in cui, tramite la lavorazione di alcuni fattori produttivi (input), si genera un prodotto (output) tale da garantire sia la riproduzione del ciclo produttivo che la creazione di una parte eccedente che verrà poi reinvestita nel ciclo successivo per aumentare a propria volta l’output. Questo processo è definito come accumulazione capitalista[1].
L’appropriazione di tale parte eccedente – definita surplus o anche valore aggiunto – è il motivo principale della conflittualità sociale e può essere considerata il motore politico della storia stessa.
Il colonialismo si integra a questo sistema facendo si che il surplus accumulato nelle colonie ritorna e venga reinvestito nel centro[2].
La grande borghesia del centro – che controlla tale sistema tramite la proprietà dei mezzi di produzione –può ottenere questo risultato tramite 2 modalità:
- Assumendo la proprietà diretta – tramite l’acquisto o l’espropriazione – dei mezzi di produzione in periferia e rimpatriando il surplus.
- Indirizzando il surplus autoctono verso i canali centrali, ciò è possibile grazie al fatto che la borghesia periferica è ben disposta ad investire i propri risparmi verso luoghi più sicuri. Un altro metodo è tramite le banche – direttamente legate alla borghesia centrale – che reinvestono i risparmi periferici nel centro. Alternativamente questo passaggio può concretizzarsi attraverso la vendita dei titoli di Stato, che a sua volta può investire tali risparmi – frutto del surplus – nel sistema produttivo centrale.
Le istituzioni politiche – egemonizzate e pressate dalla grande borghesia – si operano affinchè questo processo si intensifichi sempre di più, sia per aumentare la ricchezza e la potenza della nazione che per contribuire a gonfiare i portafogli della borghesia di cui è garante[3].
Le mafie – principale polo di accumulazione nel Meridione – rientrano perfettamente in questi schemi. Infatti i proventi mafiosi solo in piccola percentuale rimangono sul posto, la gran parte va a finanziare attività produttiva altrove.
Alternativamente come si potrebbe spiegare che i territori caratterizzati da fenomeni mafiosi, e quindi da questo “favolosa” macchina di accumulazione, sono totalmente privi di investimenti? Dove finirebbero i miliardi di indotto mafioso annuali?
D’altronde è appurato che il principale polo d’investimento della Ndrangheta è la Lombardia, che le aziende edili vicine ai casalesi hanno costruito le periferie di mezzo Settentrione ecc.
Diceva Falcone “segui i soldi e troverai la mafia”, se questo è vero allora è vero anche il contrario: se segui le attività mafiose troverai i soldi, ed è facile dimostrare che seguendo questi proventi si arriva a Milano o negli altri poli finanziari globali, perfettamente integrati nel sistema capitalistico vigente.
Schematizzando il ragionamento, se si ammette che:
- le istituzioni sono egemonizzate dalla grande borghesia
- la grande borghesia è tale se è polo di accumulazione capitalistica
- la mafia rappresenta un grande polo di accumulazione
Per sillogismi, l’unica conclusione lineare è che le istituzioni statali tutelano e agevolano l’accumulazione mafiosa.
Per questi motivi occorre ripudiare la narrazione buonista che egemonizza culturalmente la questione mafiosa, ovvero quella del poliziotto buono e il poliziotto cattivo, quella di uno Stato che da 150 anni lotta contro le mafie ma “purtroppo” non ce la fa, quella del rispetto della legalità e della legge come strumenti di lotta contro le mafie.
Per questi motivi non ci si deve meravigliare se – tramite corruzione o non – personalità politiche, come ad esempio il sottosegretario leghista ai trasporti A. Siri, favorissero con leggi apposite o con concessione di appalti gruppi della borghesia, mafiosi o non.
[1] Questa definizione è condivisa da tutti gli economisti classici
[2] Questo citato nell’articolo è solo uno dei diversi meccanismi di subalternità della periferia al centro.
[3] Per i Marxisti lo Stato rappresenta “il comitato d’affari della borghesia”, se si rifiuta questa visione rimane comunque esplicito e sotto gli occhi di tutti quanto i grandi gruppi imprenditoriali egemonizzino e fanno attività di lobbing presso le istituzioni.
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Valeria Messina
Va bene l’analisi, il problema è la conclusione. Non è il vagheggiato anticapitalismo che risolve i problemi o una rivoluzione che non si capisce bene a cosa porterebbe, salvo affidarsi fideisticamente alle sacre scritture di Marx che parla della liberazione dell’uomo dal lavoro e dal mercato e, magari, da ogni relazione terrena. In realtà sarebbe semplicemente l’applicazione della Costituzione Italiana a salvare la società dalle storture del capitalismo (comprese le mafie), preservando peraltro la democrazia.
L’art. 41 della Costituzione Italiana, infatti, recita: L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Forse è meno affascinante di uno slogan o, forse, nessuno intende veramente rimboccarsi le maniche.
Redazione Contropiano
Che la nostra Costituzione originale – prima delle “riforme federaliste” adottate dal Pd o come si chiamava allora… – sia una buona Costituzione lo diciamo sempre. Il problema è la struttura dello “Stato profondo” e i nessi clientelari tra mafie e cordate politiche. Che non è esattamente una mancanza di voglia di “rimboccarsi le maniche”, ma il perseguimento di interessi criminali privati che fiancheggiano quelli “legali” altrettanto privati (il caso Siri ci sembra paradigmatico)…