Stiamo assistendo ai primi passi di una vera guerra inter-imperialista, ma ancora pochi sono pronti a definirla tale. Per un motivo, in primo luogo: per capirlo bisogna prendere atto che “Europa” e Stati Uniti non sono più “una sola anima”, com’era stato dal ‘45 a ben oltre la caduta del Muro (1989).
Gli interessi strategici vanno divergendo, così come le dinamiche economiche, visto che con la “grande crisi” del 2008 è venuto improvvisamente meno il collante planetario della “globalizzazione” e hanno cominciato a formarsi quelle crepe che ora si solidificano anche alla superficie.
Sapete da tutti i tg che ieri l’altro Mario Draghi ha sostanzialmente annunciato una nuova fase di “stimoli monetari” a un’economia europea ansimante (a partire da quella tedesca). E che, con inusitata violenza verbale, Donald Trump ha definito questo annuncio – un annuncio! – come “concorrenza sleale”.
Sgombriamo il campo dal più consolidato degli equivoci: non è che gli Usa oggi abbiano una politica globale diversa, più “nazionalista e competitiva”, perché è arrivato quel volgare palazzinaro alla presidenza. Materialisticamente, è stata la crisi Usa ad arrivare ad un punto tale da sfociare, imprevedibilmente ma in modo sicuro, nel sollevamento di un personaggio del genere sulla poltrona politica più importante del mondo.
Draghi ha sostanzialmente ammesso che la fine del “quantitative easing” – acquisto di titoli di stato dei paesi membri della Ue, ma anche di obbligazioni societarie private, attivato inmodo massiccio dal 2015 fino a fine 2018 – è stata un errore. L’economia europea non riesce a stare in piedi senza quella droga monetaria aggiuntiva, al punto tale che neppure “stampando soldi” (espressione volgare, ma tutto sommato chiara) si riesce a riportare il tasso di inflazione al livello considerato fisiologico per un’economia in salute: il 2%.
Dunque agirà già “nelle prossime settimane” sul fronte dei tassi di interesse per passare poi agli acquisti di titoli. Inutile sta qui a speculare, come fanno i media mainstream, sul fatto che questa decisione, presa da un presidente uscente in autunno, in realtà è anche un modo di “pesare” sul prossimo board della Bce. Che di certo non potrebbe fare una “inversione ad U” rispetto a questa linea.
I fatti importanti nel discorso di Draghi sono infatti altri. L’economia non va, la Germania non investe (e potrebbe) e le politiche di bilancio impediscono che possano farlo i paesi con conti “in disordine”; al punto che pure un’inflazione più alta del 2% sarebbe ora vista dagli arcigni guardiani di Francoforte come un “male benefico” (questo significa quella strana frase di Draghi sul “perseguire l’obiettivo di un’inflazione vicina al 2% in modo simmetrico”. Ossia «Se dobbiamo ottenere questo valore di inflazione nel medio termine, l’inflazione dovrà salire sopra quel livello per qualche tempo in futuro».
Non è un dettaglio di poco conto, visto che lo statuto delle Bce – contrariamente a quello della Federal Reserve Usa – ha un solo obbiettivo: il mantenimento dell’inflazione intorno al 2%. E’ come ammettere il fallimento, sia dello statuto che delle politiche “non convenzionali” adottate per rispettare l’obbiettivo…
Altra cosa importante, gli strumenti in mano alla Bce sono piuttosto scarsi. Il “taglio dei tassi di interesse” su cui titolano i giornali è semplicemente impossibile, visto che in questo momento sono a zero. Abbassarli equivarrebbe a regalare denaro alle banche – gli unici “clienti” ammessi a chiedere prestiti dalla Bce – che potrebbero restituire meno di quel che prendono. Un controsenso, in regime capitalistico.
Un margine più ampio c’è per gli interessi sui depositi (la percentuale corrisposta alle banche che scelgono di lasciare fondi propri nelle casse della stessa Bce), che sono già ora negativi, -0,4%. Ossia le banche sono disposte ad una perdita certa, ovviamente minima, piuttosto che prestare soldi a famiglie e imprese…. In pratica, i tassi negativi sui depositi (da aumentare ancora) sono un disincentivo a lasciare fermo il denaro, uno stimolo a prestarlo (che sarebbe poi uno dei compiti tipici di una banca…) per risollevare in qualche modo la crescita.
Dunque, Draghi non può far altro che far partire al più presto gli acquisti di titoli di stato. Il che è già – basta la parola! – una mano santa per lo spread: se la Bce compra, allora il prezzo sale e il rendimento (il tasso di interesse) scende, come nei manuali.
In generale, una politica monetaria espansiva si traduce in un deprezzamento della moneta europea rispetto alle altre. Una classica svalutazione competitiva, identica a quelle praticate altrove o in altri tempi (per cui ancora adesso certi “fenomeni da talk show” criticano i governi ante-euro).
Trump ha colto subito questo elemento, dimenticando – come d’abitudine per qualsiasi statunitense – di aver aperto proprio lui, da pochissimo, una furibonda “guerra dei dazi” con Cina, India, Messico, Unione Europea, ecc. Ossia di aver fatto una svalutazione competitiva con altri mezzi (facendo salire artificialmente il prezzo delle merci straniere rispetto a quelle Usa).
Più preoccupante è il fatto che Draghi abbia scelto questa strada dopo aver studiato i dati sull’inflazione attesa per i prossimi dieci anni, all’interno della Ue. Piatta come un biliardo. Il che significa stagnazione economica, economia ferma.
Ma può un’economia capitalistica – orientata all’espansione senza limiti – tollerare un secondo decennio di crescita quasi zero? Certamente no, perché la coesione sociale è già ora ai minimi termini, i “populismi” impazzano e il rischio di una conflittualità ingovernabile (che non vuol dire “rivoluzionaria”)
Anche perché, dati del Pil a parte, la situazione strategica dell’Unione Europea sta diventando – per colpa delle politiche di austerità – insostenibile anche su altri fronti decisivi.
Un rapporto pubblicato un paio di mesi fa dal Defense Innovation Board (struttura di consiglieri indipendenti del Pentagono) spiega la rilevanza del G5, la nuova tecnologia di comunicazione mobile che supera di venti volte in velocità e portata i migliori sistemi esistenti. «Chi muove per primo guadagnerà miliardi di ricavi, accompagnati da una notevole creazione di posti e dalla leadership nell’innovazione tecnologica».
Interessante è il verdetto stilato: “la gerarchia fra i Paesi che si stanno avvicinando all’uso di queste frequenze” è ormai definita. Prima è la Cina, seguita dagli Stati Uniti. «Subito dietro» Corea del Sud e Giappone. Gran Bretagna, Germania e Francia (ossia la crème dell’Unione Europea) sono «seconda classe», paesi obbligati a scegliere tra le tecnologie della Cina o degli Stati Uniti. Praticamente questa battaglia è stata già persa…
Quando si invita tutti a “stringersi intorno all’Europa” , altrimenti “non si riesce a competere”, si è già entrati in un’ottica belligerante (che è “competizione con tutti i mezzi”).
E, come sempre, non si capisce proprio perché chi se la passa male in questo mondo dovrebbe preferire un padrone (o un imperialismo) al posto di un altro, invece di mandarli a quel paese tutti…
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