Nel mese di agosto abbiamo assistito ad una delle crisi politiche più peculiari della storia repubblicana. Il Capitano Salvini, che fino a un momento prima dettava l’agenda di governo fino all’ultima virgola con l’acquiescenza totale degli alleati 5stelle, decide di sfilarsi dall’esecutivo. Scelta di cui si pente evidentemente un minuto dopo, verosimilmente a seguito di sonore tirate d’orecchie di padroni e padroncini del nord Italia che mal tollerano turbolenze e instabilità, tanto da arrivare a implorare Di Maio e compagnia di ripensarci (certi amori fanno giri immensi e poi ritornano). I 5stelle, a loro volta, ottengono un biglietto di uscita gratis dal buco di irrilevanza in cui un anno e mezzo di coabitazione con la Lega li aveva cacciati. A sorpresa decidono di allearsi con il loro peggior nemico, il vituperato Partito Democratico, che rinasce dalle ceneri cui le elezioni del marzo 2018 lo avevano relegato. E così dal governo giallo-verde transitiamo senza colpo ferire verso il governo giallo-“rosso”.
La nascita del Governo è stata accompagnata da un fiorire di commenti e opinioni illustri, dalle sfumature più disparate ma che, soprattutto a sinistra, si dividono sostanzialmente in due macro-famiglie argomentative
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La nuova coalizione tra PD e 5stelle rappresenta la definitiva normalizzazione di ogni velleità anti-austerità che, almeno allo stato embrionale, si poteva trovare nel precedente governo gialloverde,
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Pur di liberarsi di Salvini, va bene sostanzialmente tutto. Se poi saremo particolarmente fortunati, questo Governo non si limiterà a essere “non così razzista”, ma varerà anche una serie di misure di natura economica prudentemente riformiste e progressiste.
In maniera forse non sorprendente, nessuna delle interpretazioni risulta particolarmente utile ai fini dell’analisi.
La prima coglie, in parte, un pericolo evidente che il nuovo Governo incarna. Si base però su una premessa del tutto fallace, secondo la quale la Lega avrebbe rappresentato una, anche solo minima, volontà di rottura con l’austerità di matrice europea. Nei mesi del Governo Conte I, abbiamo più volte mostrato l’abisso che intercorreva tra le fanfaronate che Salvini sparava a favore di social o telecamere e la realtà dei provvedimenti governativi. Lo ribadiamo: la Lega si trovava e si trova perfettamente a suo agio all’interno del soffocante perimetro che le istituzioni europee hanno disegnato intorno alla capacità di un paese di effettuare spesa pubblica per combattere la disoccupazione, pagare pensioni dignitose, fornire servizi pubblici funzionanti e per tutti. E infatti, Salvini e il suo blocco sociale di riferimento non hanno alcun interesse per il benessere delle classi popolari e apprezzano la disoccupazione e la precarietà nel mercato del lavoro che Bruxelles impone, perché permettono di disciplinare i lavoratori e garantiscono un surplus di sfruttamento che si traduce in maggiori profitti per industriali e possidenti del nord Italia. Un mondo ‘perfetto’, contro cui abbaiare alla luce del sole mentre nelle oscure stanze governative si opera in perfetta continuità con gli esecutivi precedenti.
Ma è forse la seconda quella che sta facendo maggiormente breccia, anche in mondi a noi vicini. Il ragionamento sembra svilupparsi intorno a due cardini. La prima gamba del ragionamento è il semplice fatto di non vedere ogni giorno Salvini che spinge un po’ più in là la frontiera di quanto un Ministro dell’Interno può dire e fare, sulle spalle dei più disperati e sfruttati, è di per sé una cosa positiva. Su questo non ci piove, anche senza dimenticare l’atroce operato di Minniti nell’ultimo esecutivo monocolore PD. L’altra gamba è legata invece a questioni più propriamente economiche, e muove dalla speranza che il Conte bis abbia nella sua agenda provvedimenti che servano a rilanciare il potere d’acquisto della maggior parte della popolazione e magari una spruzzata di investimenti pubblici, se possibile green. Il generico e vago accordo sottoscritto dai due partner di governo sembrerebbe confermare questa ipotesi, per giunta corroborata da segnali rassicuranti che vengono da Bruxelles. Le istituzioni europee, a questo giro, sembrano in effetti disposte a concedere margini di ‘flessibilità’ nell’applicazione dei loro parametri di finanza pubblica.
Diventa a questo punto spontaneo porsi due domande, dirette e banali.
Quanto? La risposta a questa domanda pare sufficiente a spegnere ogni possibile ottimismo. Nello scenario più roseo, il governo si impegnerebbe a realizzare, per l’anno prossimo, un deficit pari al 2.3% del PIL. Come scrivemmo a commento delle prime bozze della legge di bilancio del governo gialloverde– che prevedeva un deficit al 2.4% – si tratterebbe in maniera netta e chiara dell’ennesima manovra che realizza un avanzo primario, l’ennesima manovra che sottrae all’economia più risorse di quelle che spende. D’altra parte, le dichiarazioni di Conte alla Camera sono state molto chiare al riguardo, con il fu Avvocato del popolo che dichiara: “Realizzeremo questa visione tenendo conto dei vincoli di finanza pubblica e della sostenibilità del debito che avvieremo lungo un percorso di riduzione”. Ma la questione non è comunque banale. Dopo le tirate di orecchie delle istituzioni europee, i gialloverdi tornarono rapidamente ad ancora più miti consigli, rinunciando ad un già austero deficit al 2.4% in favore di uno austerissimo, pari al 2.04%. Non è inverosimile pensare che, invece, la nuova coalizione governativa riesca a spuntare per il 2020 proprio il 2.3% di cui si parla in questi giorni, o comunque qualcosa in più di quanto è stato concesso al primo Governo Conte. Si tratterebbe comunque di meno di una goccia nell’oceano, nulla di diverso da una dose leggermente meno intensa di austerità. All’interno dei vincoli di finanza pubblica imposti dalla costruzione europea, questo è il massimo al quale si può aspirare: lottare per avere poche briciole in più senza mettere in discussione il ricatto di disoccupazione, sottoccupazione e salari miserabili.
Perché? Come mai, verosimilmente, il governo Conte bis potrà godere di maggiore ‘flessibilità’ e di (leggerissimamente) più ampi margini di manovra? Si è davvero messo in moto il fantomatico processo di cambiamento dall’interno delle istituzioni europee, in una direzione più favorevole al mondo del lavoro? Forse la Commissione Europea ha finalmente realizzato che è necessario l’intervento dello Stato per combattere la disoccupazione? La risposta sembra annidarsi altrove. Ormai da qualche anno bande contrapposte si contendono la gestione dell’austerità a livello europeo: da un lato c’è l’ancien régime, rappresentato da popolari, socialisti e liberali e che detiene il potere dalla nascita del progetto comunitario; dall’altro scalpitano i nuovi barbari, in salsa sovranista, neo-fascista e reazionaria. Entrambi gli schieramenti condividono l’architettura di fondo delle istituzioni europee e il loro ruolo storico di dispositivo di repressione, controllo e freno al progresso sociale. Al di là di sfumature e dettagli, l’unica ragione del contendere è quindi l’amministrazione del potere. Dopo una serie di tornate elettorali dai risultati ‘preoccupanti’, coloro che hanno detenuto fino a oggi le leve a livello europeo devono avere realizzato che mostrare la faccia truce e senza pietà non paga, elettoralmente e in termini di consenso. Impartire un’austerità non temperata e sfacciata spiana la strada ai Salvini e alle Le Pen e diventa quindi necessario, per evitare di farsi sfilare il bastone del comando, provare a darsi una riverniciata di umanità e di flessibilità. Il minimo indispensabile, ovviamente, senza per questo mettere minimamente in discussione la visione economica di fondo che ha provocato l’ultima Grande Recessione e che condanna il sud dell’Europa a disoccupazione e miseria. Ma quanto basta per provare a dare almeno l’impressione di avere a cuore le sorti dell’elettorato. Un mero accorgimento tattico, quindi, nessun ravvedimento, nessuna possibilità di manovra oltre quella concessa col contagocce a governi più ‘amici’. Nessuna possibilità, quindi, di reale emancipazione da assurdi e irrazionali vincoli punitivi su quanto uno Stato può fare.
Ogni briciola che il Conte bis riuscirà a mettere nel nostro piatto sarà quindi una concessione, non una conquista. Una concessione che magari potrà, nel breve periodo, dare un lieve sollievo agli strati più disagiati della popolazione. Una concessione che, però, sarà solamente uno strumento di consolidamento del consenso verso chi impone austerità e sacrifici ai molti, a vantaggio dei pochissimi. Questa è la chiave interpretativa con la quale il nascituro Governo deve essere valutato e giudicato, per evitare di illudersi che è sufficiente sconfiggere il Salvini di turno per garantire progresso e benessere.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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Claudio
D’accordo, non è sufficiente sconfiggere il Salvini di turno, ma è necessario per continuare a battersi in un contesto politico più favorevole contro l’austerità