Il lungo addio di Fiat all’Italia era cominciato con l’era Marchionne, chiamato a rivitalizzare un marchio – e profitti – sull’orlo del fallimento a causa delle strategie “risparmiose” di casa Agnelli in materia di ricerca e investimenti.
La fusione con Chrysler ha poi “americanizzato” il marchio, riducendo drasticamente l’offerta e la produzione italiana. Mirafiori è ormai archeologia industriale, quasi come Arese (Alfa Romeo).
Ora è la volta della fusione con il gruppo francese Psa (Peugeot e Citroen), benedetta dai governi Usa e francese – all’Italia glielo hanno detto a cose fatte – che riduce le possibilità di sopravvivenza degli stabilimenti qui da noi a poca roba. Ferrari e Maserati, ovviamente. Ma poi quasi nien’altro (Iveco, camion, macchine agricole, ecc).
L’annuncio ufficiale era stato anticipato dal Wall Street Journal, segno certo che anche il “cervello” dell’operazione (e la “gola profonda” negli uffici giusti) è ormai stabilmente al di là dell’Atlantico.
I giornali si compiacciono di poter salutare un gruppo “quarto produttore mondiale”, con 400.000 dipendenti, 8,7 milioni di vetture vendute attualmente, svariati miliardi d profitti annui, ecc. Come se fosse ancora roba che ci riguarda, un segno di “italianità” (se ne sente qualche eco al bar o dal barbiere, veri tetari della credulità popolare prima dei social).
Ma sono molto cauti sulle conseguenze, sia occupazionali che di “stile” dei modelli che usciranno dopo la fusione.
La rivalità-diversità tra Francia e Italia in materia di automobili ha segnato il ‘900 e la fusione societaria non sembra poter lasciare intatte differenze sostanziali. Fca, attualmente, ha il suo settore di punta nei marchi americani (Jeep e Ram), mentre arrancano i prodotti italici (anche Alfa Romeo, ristretta ad una nicchia di amatori).
Psa non ha praticamente nulla da offrire su quel mercato, dunque gli serviva un “ponte” per entrarci. Viceversa, le vetture “italiane” di Fca non hanno molte speranze di aumentare le vendite sul mercato francese o quelli collegati. Il che non lascia molte speranze di mantenimento dell’occupazione nei residui stabilimenti italiani.
Entrambe le società hanno ovviamente teso a rassicurare le rispettive rappresentanze sindacali in proposito, ma nessuna fusione industriale è mai stata “buona” con i lavoratori dipendenti. Le “sinergie”, infatti, hanno come prima conseguenza logica l’eliminazione delle sovrapposizioni, tanto a livello manifatturiero (modelli della stessa fascia, motori della stessa cilindrata e con prestazioni equivalenti, pianali, ecc) quanto a livello commerciale (reti di concessionari momomarca, assistenza, officine, ecc).
Del resto il progetto ufficiale non fa mistero degli obbiettivi: risparmiare costi per 3,7 miliardi di euro annui, tra i tagli agli investimenti eliminando le duplicazioni ed i risparmi che derivano dalle sinergie, al fine di conseguire un utile operativo annuo di 11 miliardi su un fatturato di 170 miliardi di euro.
E’ una conferma di una storia antica, in ambito capitalistico: gli accordi si fanno per consolidare il potere ed aumentare i profitti. Entrambe le società sono in difficoltà da tempo. Il loro mercato si va riducendo, i produttori qualitativamente migliori (Toyota, Volkswagen, Renault-Nissan-Mitsubishi) sono ormai irraggiungibili, mentre i marchi coreani sono ormai in avanzata fase di sorpasso (Hyundai, in primo luogo) e da dietro si sente arrivare l’incommensurabile massa d’urto di quelli cinesi (forti di un mercaro in rapidissima espansione e di dimensioni inconcepibili per degli europei).
Sono indietro, soprattutto, in fatto di ricerca sull’auto elettrica, ormai individuata come l’unica alternativa per il prossimo futuro (con buona pace dei sogni sull’idrogeno e dintorni). Né Fca né Peugeot ha ancora buttato lì almeno un prototipo di auto ibrida, mentre le giapponesi sono dieci anni che girano e ormai si vendono in volumi abbastanza consistenti da abbassare i prezzi a livello delle motorizzazioni a idrocarburi.
Due moribondi che si fondono, dunque, per eliminare tutte le parti ormai inutili, ritagliare quote di profitto tali da consentire di investire in ricerca oppure prepararsi – gli azionisti di riferimento, mica gli altri! – a traslocare in altri business (gli Agnelli sono da 30 anni su questa strada: dal 2000 al 2018 il numero degli occupati di FCA è passato da 120mila a 29 mila unità).
Come hanno già scritto altri, non è un progetto industriale, ma una spending review…
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