All’apertura delle borse asiatiche lunedì il prezzo del brent ha bruciato massicciamente in pochi secondi il suo valore passando dai 45 dollari al barile ai 31,45, un calo storicamente inedito che si somma a quello del 9% di venerdì. Da lì in poi il prezzo ha fisiologicamente oscillato un po’ al di sopra di quella quota, in media intorno ai 33-36 dollari; ossia il 20-25% in meno.
Trascinate dalla dinamica “ribassista” del prezzo del greggio e dalle conseguenze economiche di ciò che l’OMS ormai definisce pandemia, tutte le borse hanno continuato a perdere, stabilendo record negativi che rimandano alle performance peggiori del 2008.
Il “cigno nero” ha fatto la sua funesta apparizione sulle piazze di tutto il mondo quindi, travolte dalla guerra del petrolio iniziata nella seconda metà della settimana scorsa, con il mancato accordo in sede OPEC PLUS tra Arabia Saudita, Paese OPEC, e Russia che, insieme ad un’altra decina di Paesi, aveva integrato l’alleanza “allargata” tra il cartello petrolifero ed altri attori.
Un ambito che ha di fatto retto solo tre anni, garantendo la relativa stabilità del greggio tra i 60 e i 70 dollari al barile, sullo sfondo della competizione con gli Stati Uniti divenuti, grazie al petrolio di scisto, il primo produttore di oro nero al mondo. Cosa che ha loro garantito – nonostante il costo elevato di questa tipologia d’estrazione – un output di 12 milioni di barili al giorno.
«Dal 1° non ci saranno più restrizioni a produrre né per l’OPEC né per i paesi non OPEC», ha dichiarato il ministro russo all’energia Alexander Novak abbandonando il vertice a Vienna la scorsa settimana.
L’OPEC aveva messo con le spalle al muro la Russia giovedì, approvando nuovi tagli produttivi di 1,5 milioni di barili al giorno, di cui un terzo a carico degli alleati esterni, l’OPEC PLUS appunto.
Quantità ed estensione temporale della misura, inizialmente previste per il secondo trimestre, sono state allargate a tutto l’anno dopo la conclusione della riunione.
Un taglio record del 4% dell’offerta globale di greggio, superiore in termini percentuali a quello effettuato a fine 2008 dopo il collasso di Lehman Brothers.
Di fronte al fatto compiuto la Russia ha esclamato il suo niet.
Non c’è più quindi alcuno organismo di governance allargata condivisa per ora ed i tre maggiori global player globali: USA, Arabia Saudita e Russia stanno andando ad una guerra senza esclusione di colpi con gli evidenti riflessi geo-politici del caso.
La situazione che si sta prefigurando è simile per certi versi a quella dell’inizio degli anni Trenta del secolo scorso: domanda in forte calo (causa Coronavirus, serve meno energia per tutti i tipi di attività), eccesso di offerta da parte dei produttori petroliferi e prezzi stracciati, con un feedback negativo sulle dinamiche economiche complessive.
L’Arabia Saudita ha deciso infatti – dopo il fallimento del vertice OPEC PLUS – di abbassare drasticamente il prezzo di vendita applicando sconti inediti per le forniture future ai suoi clienti ed allo stesso tempo di aumentare a dismisura il suo output, fino a raggiungere la quota di 12 milioni di barili al giorno.
Questo vuol dire letteralmente inondare il mercato con petrolio a prezzi irrisori, per annichilire i propri competitor; e avrà probabilmente come conseguenza il ridimensionamento dei faraonici progetti economici dei sauditi e dell’impegno nella guerra in Yemen.
Non a caso in questi giorni il principe “MBS” – Mohammed Bin Salman, responsabile dichiarato dell’assassinio del giornalista dissidente Kamal Khashoggi, a Istanbul – sta accelerando la sua “verticale del potere” procedendo ad una epurazione dei possibili rivali nella cerchia di potere saudita, per guidare questa fase che sottoporrà uno stress test notevole ad un sistema di potere politico-economico che ha già mostrato le sue fragilità. Sia perché non è riuscito a realizzare i suoi obiettivi in politica estera, sia perché si è scoperto vulnerabile al suo interno, specie nella struttura petrolifera.
Una strategia non nuova, che nel 2015 aveva registrato un clamoroso insuccesso nei confronti degli Stati Uniti – lanciati dall’anno prima nel petrolio di scisto, grazie agli alti prezzi del greggio. Una strategia che aveva portato il prezzo del petrolio a meno di 30 dollari al barile pensando di spingere verso il tracollo l’industria petrolifera statunitense; che invece ha retto.
Il frutto di quel fallimento era stata l’alleanza con la Russia, che nel novembre dello stesso anno aveva restituito all’OPEC la massa critica necessaria a regolare l’offerta di petrolio, con tagli e quote da rispettare e una riduzione draconiana condivisa che avevano portato l’anno successivo il prezzo al barile a 65 dollari.
Come ha detto il ministro iraniano Bijan Zanganeh: «Non c’è nessuno piano B. Se i Paesi non accettano l’accordo, allora non c’è nessun accordo» e la speranza di vederli presto seduti allo stesso tavolo negoziale appare piuttosto irrisoria.
Mikaïl Leontiev, porta-voce di Rosneft, ha dichiarato a Ria Novosti che l’accettazione delle condizioni imposte dai sauditi avrebbero: «lasciato spazio agli scisti americani a prezzi elevati, per rendere la loro industria redditizia», qualificando come “masochistica” una eventuale scelta in tal senso per la Russia.
La Russia è disponibile a svuotare i 150 miliardi di dollari del suo fondo sovrano pur di poter “tenere” in piedi la propria economia anche con un prezzo del greggio intorno ai 25/30 dollari per 6-10 anni.
È stato infatti sospeso il provvedimento che impone alla banca centrale russa di comprare valute straniere per sostenere il rublo in periodi di ribasso del costo del petrolio, considerando “neutro” un prezzo intorno a 42,5 dollari al barile.
In questa guerra di logoramento, il fine della Russia è chiaro e consiste nel fermare i produttori americani, reagendo alle ritorsioni Usa contro l’oloedotto North Stream 2, che collega la Russia alla Germania attraverso il Paesi Baltici.
È chiaro che a rimetterci sono soprattutto i paesi produttori “minori”, già in difficoltà, che entrate in gran parte dall’esportazione petrolifera, come Venezuela ed Iran, entrambe al centro di un combinato disposto di politiche aggressive made in USA a tutto campo; ma anche altri Paesi, come l’Algeria fortemente dipendente dal prezzo del greggio, o la Nigeria, che è una delle prime economie africane e con grandi ambizioni continentali.
Senza dimenticare Paesi attraversati da gravi contri politico-religiosi come l’Iraq o da una vera e propria guerra civile, come la Libia.
Ma anche gli Stati Uniti non sono immuni da rischi che possono riguardare i giganti come Exxon Mobil o i piccoli produttori.
Bloomberg parla di conseguenze “cataclismatiche” e le perdite in borsa a Wall Street dei titoli legati all’Oil and Gas sembrano dargli ragione.
La produzione di shale oil ha un forte bisogno di credito; una crisi che ne comportasse la riduzione, ne decreterebbe il decesso. Quindi l’immissione di liquidità nel sistema, anche per impedire che si innesti una dinamica di sfiducia nei prestiti inter-bancari, diventa una priorità per un settore che in questo anno di elezioni presidenziali alzerà di certo la voce.
Se si inceppa in qualche modo la macchina che almenta il credito, la politica “estrattivista” col fracking si risolve in un gigantesco boomerang.
È chiaro anche che le conseguenze economiche del “Coronavirus”, in particolare l’impatto che ha avuto sulla Cina, sono uno dei motivi scatenanti dell’escalation del conflitto sull’oro nero.
La Cina era ed è il primo consumatore mondiale di greggio – il 14% del consumo globale – nonché il primo importatore, da cui derivava l’80% dell’aumento della domanda.
L’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) aveva stimato per quest’anno un aumento delle necessità di petrolio di 825 mila barili al giorno, riviste poi al ribasso in seguito alla crisi; ora ipotizza, in caso di prolungamento, un “worst case” scenario con una diminuzione di 730.000 barili al giorno rispetto all’anno precedente.
È chiaro che il fermo dell’“officina del mondo”, anche se temporaneo, ha ripercussioni dirette nell’inasprimento della competizione economica e geopolitica tra i big degli idrocarburi, tenendo presente anche i recenti accordi commerciali firmati tra USA e Cina, che comprendevano un’importante aumento delle forniture energetiche statunitensi alla Repubblica Popolare.
Il virus è stato un moltiplicatore delle criticità già presenti nell’attuale sistema di relazioni economiche intorno al commercio del petrolio ed ha contribuito alla “rottura” di un equilibrio raggiunto negli ultimi tre anni; quei meccanismi di governance ora sono lettera morta.
Sia detto per inciso: questa dinamica tra l’altro aggrava la crisi ecologica, di fatto incentivando il consumo di combustibili fossili grazie al prezzo fortemente ridotto.
Se a gennaio il prezzo del petrolio era di poco inferiore ai 70 dollari, ai primi di marzo era sceso attorno ai 50 ed ora poco sopra i 30, gli esperti non escludono ulteriori altri cali drastici.
«La più devastante delle guerre del prezzo del petrolio della storia recente», di cui ha parlato il sito specializzato “oilprice.org”, sta avendo precise conseguenze sulla crisi globale.
Stormi di uccelli neri – in senso stretto, parlando di greggio – si stagliano all’orizzonte dell’economia-mondo e dello scontro geo-politico globale.
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