Prima del coronavirus erano circa 570.000 gli italiani che lavoravano da casa, circa il 2% dei lavoratori dipendenti principalmente di grandi aziende. Oggi, volenti o nolenti, a causa della pandemia i numeri sono raddoppiati e secondo il ministero, i lavoratori che potrebbero svolgere il loro lavoro da casa sono 8.2 milioni.
Ma facciamo intanto un po di chiarezza sui termini: smarworking o telelavoro?
Lo smartworking è una modalità di lavoro agile messa a punto negli anni 70 negli Stati Uniti, che consente al lavoratore di maneggiare il suo tempo in libertà, definendo i propri orari e i propri spazi in base alle proprie esigenze personali, ed è strettamente obiettivo-dipendente; in altre parole uno smarworker è libero di lavorare quanto e dove gli pare, basta che si giunga all’obiettivo prefissato.
Il telelavoro invece, è una modalità di lavoro “in differita”, in cui il lavoratore deve essere connesso al server dell’azienda per il tempo previsto da contratto, è soggetto a controlli, e usufruisce di tutti gli strumenti di lavoro necessari per lo svolgimento del suo lavoro a carico dell’azienda; in altre parole, il lavoratore fissa nella sua casa il suo “ufficio”, e da li lavora.
Ad oggi i migliaia di lavoratori che sono stati invitati a lavorare da casa sono di fatto in modalità telelavoro, con la differenza che nella maggior parte dei casi, l’azienda non ha fornito loro alcuno strumento se non il portale virtuale su cui lavorare. Il lavoratore quindi, mette a disposizione dell’azienda non solo il proprio tempo, ma anche la propria connessione, il proprio pc, il proprio spazio di lavoro.
In una condizione di pressione psicologica come questa, in cui il contatto con le persone è diventato sconsigliato e “pericoloso”, il telelavoro è sicuramente il compromesso migliore per preservare la salute del lavoratore (e quella pubblica!) e il lavoro. Nonostante restare in casa sia a volte faticoso, snervante e frustrante, la possibilità di lavorare in sicurezza nelle proprie case dovrebbe mettere il lavoratore in una condizione di minor stress psicologico, al contrario di quanto vivono tutti i lavoratori che invece continuano a lavorare nelle fabbriche e nei servizi (essenziali e non!) che non si sono fermati, o che non possono adottare il lavoro da casa perché semplicemente, non hanno un collegamento alla rete.
Nonostante l’uso di internet e la copertura del territorio con la fibra sia aumentato in modo esponenziale negli ultimi anni, sono circa 11.5 milioni gli italiani che ancora non possono usufruire della banda ultralarga, e solo nelle regioni più colpite dalla pandemia (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) sono più di 2000 i comuni non coperti da banda; qui i lavoratori non possono praticare lo smartworking, e sono così esclusi da un grado di tutela e sicurezza che in questo momento fa la differenza. Si tratta di comuni in zone svantaggiate, come ad esempio zone di montagna o zone periferiche in cui fin ora, le aziede che si occupano di attrezzare il territorio di connettività, non hanno trovato conventiente affrontare il costo della predisposizione alla copertura wi-fi.
Ma in termini generali, cosa sdogana il telelavoro o lo smartworking?
Lavorare da casa, almeno per un primo periodo, viene sussunto dal lavoratore come una specie di “privilegio”, e si trasforma il rapporto tra lavoratore e azienda, in senso individualista e personalista. Uno studio del Politecnico di Milano sullo smartworking, riporta che i lavoratori che lavorano da casa registrano a favore dell’azione un aumento del 4.5% della produttività (si lavora di più), un aumento del 5% dell’efficienza qualitativa del lavoro (si lavora con maggior abnegazione), e anche una diminuzione delle assenze per malattie (si lavora anche se si ha un po di febbre). Ma senza accorgersene si consumano in proprio (e non a carico dell’azienda) un sacco di risorse, dal traffico dati, all’energia, al pc, ecc.. tutti costi che l’azienda risparmia e scarica sul salario del lavoratore! Per non parlare del fatto che, nonostante la “iper-connettività”, sparisce completamente il concetto della coscienza collettiva del lavoro rendendo ancora più difficile l’organizzazione dei lavoratori, e trionfa la condizione del lavoro individuale (si pensi alla gestione delle procedure amminsitrative), spersonificato (si pensi alla didattica online), personalistico (si pensi agli obiettivi aziendali).
Quando questo periodo di “telelavoro in emergenza” sarà passato, la sperimentazione dello smartworking avrà sicuramente prodotto sufficienti dati perché un azienda, piccola o grande che sia, possa valutare la convenienza economica di questa modalità di lavoro. Come lavoratori, sarebbe bene che iniziassimo fin da subito a fare altrettante valutazioni, per non trovarci improvvisamente incastrati in una modalità di lavoro che azzera completamente la connessione e il confronto tra lavoratori (con presumibili effetti deleteri sulla contrattazione e sulle libertà sindacali), e che scarica sul lavoratore ulteriori costi “a parità di salario”.
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