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La Cina, gradualmente, dopo due mesi, sembra uscire dalla situazione di impasse economico generata dal Coronavirus.

La Repubblica Popolare non conosceva una “contrazione” del genere dal 1976, ma l’obiettivo di crescita – nonostante le perdite di questi due mesi – rimane il 5% per l’anno in corso, contro il 6,1% di quello precedente.

Sono infatti i consumi interni, ormai, a guidare la crescita cinese; costituiscono infatti il 60% del Pil.

Il ritmo dell’economia cinese è ancora rallentato e sembra viaggiare a tre quarti della sua abituale velocità – almeno secondo alcuni indicatori economici citati dal quotidiano francese Le Monde – dopo un mese dal rientro delle ferie prolungate fino al 10 febbraio e due mesi dalla quarantena imposta a Wuhan, ora terminata.

Rifacendosi ai dati ufficiali, diramati dall’ufficio di statistica cinese, il quotidiano francese parla di -13,5% per la produzione industriale e un -20% delle vendite al dettaglio rispetto agli ultimi due mesi del 2019.

Big One Lab”, basandosi sulla piattaforma di delivering di ristoranti e alimentari Meeituan Dianping – che raggruppa un milione di operatori del settore – stima che l’80% siano aperti contro il 40% di inizio febbraio.

Altri indicatori confermano la ripresa in alcuni settori, e la stagnazione di altri.

Un altro dato interessante è il ritorno dei lavoratori “migranti” – fondamentali per l’economia cinese – che dal proprio luogo d’origine sono tornati ad affollare le città dove lavorano, nel sud della Cina. Erano un terzo quelli tornati a fine febbraio, sono divenuti il 90% a metà marzo.

Questo lunedì, a Pechino, il gruppo speciale per l’emergenza sanitaria presieduto dal primo ministro si è riunito, e le esternazioni di Li Kequiang sono state chiare: «le autorità locali e i ministeri devono coordinare e risolvere immediatamente i problemi pratici di prevenzione e di controllo dell’epidemia, della ripresa del lavoro e della produzione nelle industrie e nella vita di massa».

Lo sforzo congiunto delle autorità deve essere scongiurare una “seconda ondata” del contagio da chi proviene dall’estero e far ripartire il Paese.

Un dato che fa riflettere, in queste settimane di turbolenze finanziarie, è il fatto che la Cina sia diventata un’oasi per una parte degli investitori internazionali, facendo impennare fino al record storico la quantità di Renminbi Bonds detenuta da investitori stranieri a 2 mila e 270 mila miliardi. Un “bene rifugio”, insomma, come e più dei treasury statunitensi.

Un segno di fiducia dei mercati che potrebbe essere il segno della capacità di catalizzazione della Cina per gli investitori internazionali, come riporta anche il Financial Times.

È sempre bene ricordare che fu il pacchetto di stimoli varato da Pechino, dopo il 2008, uno dei motori per l’uscita dalle secche della crisi economica mondiale in cui l’aveva spinta la finanza statunitense. Quei 586 miliardi di dollari, se paragonati all’attuale pacchetto da 2mila miliardi varato dagli USA – il più grande in tutta la sua storia – fanno quasi sorridere, ma hanno avuto una funzione rilevante.

Un altro dato interessante è la volontà di investire in infrastrutture da parte delle singole autorità locali cinesi, con la disponibilità ad indebitarsi per 368 miliardi di euro, come volano per rilanciare l’economia.

È chiaro che il settore bancario – fortemente in mano statale – avrà un ruolo di primo piano per rilanciare l’economia, e ci si interroga su quali saranno le sue scelte, cosa che fa l’articolo che abbiamo tradotto qui sotto.

Finora abbiamo assistito ad una “normale politica monetaria”, molto differente dal bazooka messo in piedi dalle banche centrali europee e dalla FED.

Una mossa in controtendenza da parte di una economia che ha – a livello di possibili tagli di tassi – notevoli margini.

Il LPR – Benchmark Lending Rate, cioè il tasso di interesse – è poco superiore al 4%, ed è stato appena limato, a differenza di UE e USA.

È chiaro che l’estensione del credito, la riduzione dei tassi sui prestiti e l’incremento per la “tolleranza” per i bad debit creati durante la crisi, sono mosse prefigurabili, ma si ha la sensazione che esista un differenziale netto tra le possibilità di uscita “sensata” dalla crisi di marca cinese – ponderata politicamente e prevalentemente incentrata sull’economia reale, coadiuvata da un sistema bancario strettamente controllato dal “braccio politico” – e l’affanno dei decisori politico-economici occidentali nel salvare una barca che affonda, costi quel che costi, anche mettendo a repentaglio la vita delle persone.

Abbiamo trovato illuminante il contributo di Jean-François Dufour – uno dei massimi esperti francesi di economia cinese – su Le Monde, su come la Cina si stia attrezzando per “bonificare” dai bilanci delle banche i possibili crediti deteriorati prima concesi alle aziende che hanno più sofferto la crisi.

È un po’ complesso, ma ci aiuta nel ragionamento.

Si tratta di una strategia mutuata dall’intervento massiccio effettuato nel 1999, dopo la crisi asiatica, da quattro banche che “pulirono” 170 miliardi di dollari, una cifra allora corrispondente al 15% del Pil del Paese, proseguita dopo la crisi del 2008 a livello regionale.

A capo di questa operazione – che non sarà a livello locale, ma centrale – ci sarà Zhu Hexin, segretario pel PCC per le imprese, con un passato come vice-governatore del Sichuan (2016-218), spostato dal ruolo attuale di vice governatore della banca centrale (la PBoC) alla filiale della Citic Group, la Jianton Citic AMC, che diventerà entro sei mesi la China Galaxy AMC.

La Galaxy è posseduta al 70% dalla Central Hijin, a sua volta posseduta al 100% dalla CIC, che fa fa capo al Ministero delle Finanze.

Uno dei compiti più delicati – prevenire che possibili crediti deteriorati scatenino una crisi sistemica – è affidato ad un profilo di alto grado del Partito, con una esperienza di governo locale nel monitorare “gli eccessi” della finanza, che viene dal mondo bancario strettamente legato al governo e che agirà in strettissima coordinazione con la banca centrale.

È qui la differenza non di poco conto tra “due mondi”, quello che ha le convulsioni – tra cui il nostro – e quello che antepone (o almeno ci prova) l’intelligenza politica e la pianificazione economica alla sete di profitto e agli “umori” dei mercati.

Non è il socialismo realizzato, certo, ma non è neanche quel mondo di folli, criminali e guerrafondai che comanda negli USA.

Le conclusioni di Dufur sulle politiche intraprese da Pechino per questa delicatissima questione sono lapidarie – amare per lui, non per noi – e mostrano che queste scelte non fanno altro che «allontanare un poco di più una ipotetica riforma dell’economia cinese», in senso neoliberista ovviamente.

Pensiamo che si stia aprendo in Cina un dibattito importante sulla “strada da seguire” e che necessariamente potrà non essere quella intrapresa dopo la crisi del 2008.

Ci è sembrato utile quindi tradurre questo articolo scritto a quattro mani dai corrispondenti a Pechino e ad Honk Hong del Financial Times, Don Weinland e James Kynge, pubblicato il 18 marzo, dal significativo titolo: “Alla Cina manca la voglia di salvare l’economia mondiale, avvertono gli analisti”.

Buona lettura.

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Quando nel 2009 il capitalismo sembrava crollare in tutto il mondo occidentale, la domanda proveniente dalla Cina per qualsiasi bene, dal minerale di ferro alle borse firmate, ha contribuito a risollevare l’economia globale dai giorni più bui della crisi finanziaria.

L’economia cinese, alimentata da un pacchetto di stimoli da 586 miliardi di dollari, è cresciuta del 9,4% quell’anno e ha superato il 10% nel 2010, prendendosi il merito di guidare la ripresa globale mentre gli Stati Uniti e l’Europa erano in difficoltà. Tale sforzo consisteva principalmente in prestiti bancari e incentivi alla creazione di nuove attività mentre i gruppi cinesi acquistavano materie prime e merci in tutto il mondo.

Alcuni economisti pensano che la Cina lancerà un programma di stimolo che stimolerà una nuova ondata di domanda nei paesi devastati dal coronavirus e aiuterà a salvarli da una recessione globale.

Questa volta, tuttavia, la Banca popolare cinese ha adottato un approccio più misurato, anche quando la Federal Reserve americana ha pompato migliaia di miliardi di dollari nel sistema finanziario e le banche centrali di tutto il mondo hanno ridotto i tassi di interesse.

Il PBoC ha leggermente abbassato i tassi sui prestiti e questa settimana ha aperto circa 505 miliardi di renminbi (78 miliardi di dollari) di nuova capacità di prestito presso le banche.

C’è stato un grande entusiasmo per quanto riguarda gli interventi della Banca popolare cinese qui in Europa, soprattutto perché il margine di manovra della BCE è così limitato“, ha affermato Ipek Ozkardeskaya, analista senior presso Swissquote Bank.

Ma la seconda economia più grande del mondo è nel mezzo della sua più forte contrazione dagli anni ’70. I pavimenti delle fabbriche e i centri commerciali sono rimasti vuoti per tutto il mese di febbraio quando l’emergenza sanitaria pubblica ha fermato gli spostamenti di centinaia di milioni di persone.

La produzione industriale si è contratta del 13,5 per cento a gennaio e febbraio, il ritmo più veloce mai registrato, ha dichiarato il National Bureau of Statistics lunedì. Le vendite al dettaglio sono crollate del 20,5 per cento nei primi due mesi di quest’anno rispetto al 2019 e la disoccupazione urbana ha toccato il 6,2 per cento a febbraio, il tasso più alto mai reso pubblico.

Sulla base di un calcolo di Capital Economics, il prodotto interno lordo nei primi tre mesi di quest’anno si contrarrà di circa il 20% su base trimestrale.

Il ritmo degli investimenti di capitale nel paese, che crea una domanda globale di materiali e macchinari per l’edilizia, stava rallentando anche prima della crisi del coronavirus, secondo Mo Ji, capo economista cinese presso il gestore degli investimenti AllianceBernstein.

Ciò significa che anche un potente programma di stimolo in Cina farebbe fatica a favorire la crescita globale. “Indipendentemente dalla quantità di società creditizie, non c’è spazio per un’ulteriore espansione del capitale investito“, ha detto.

Neil Shearing, capo economista del gruppo presso Capital Economics, ha affermato di aspettarsi che la Cina lanci uno stimolo per progettare una ripresa da quello che probabilmente sarebbe il peggior trimestre del paese dopo la Rivoluzione Culturale negli anni ’60 e ’70. Capital Economics ha stimato che il PIL si è contratto del 13% nei primi due mesi dell’anno.

Shearing si aspettava che lo stimolo fosse equivalente a circa il 2% del PIL e provenisse da varie fonti: sostegno fiscale mirato sotto forma di prestiti e sussidi ai datori di lavoro più colpiti e allentamento della politica monetaria. Inoltre, la banca centrale potrebbe offrire finanziamenti a basso costo alle banche che erogano prestiti ai settori più colpiti.

Ciò comporterebbe un aumento del deficit di bilancio quest’anno e aumenterebbe il già enorme mucchio di debiti della Cina. Ma Shearing ha detto che Pechino probabilmente possedeva il margine finanziario per evitare di scivolare in una crisi del debito.

“Uno stimolo significativo sarebbe un problema per la struttura del debito a medio termine della Cina, ma non causerebbe una crisi fiscale a breve termine”, ha detto.

Il carico di debito totale della Cina ammonta a circa il 310 per cento del PIL, uno dei livelli più alti tra i mercati emergenti, secondo l’International Institute of Finance.

“Lo stimolo macro-economico sarà molto più timido rispetto al 2009, poiché lo stimolo su larga scala non si adatta bene all’attuale mentalità dei politici a Pechino”, ha affermato Louis Kuijs, capo del dipartimento di economia asiatica presso Oxford Economics.

Chen Yulu, vice governatore del PBoC, ha recentemente osservato sul Financial Times che la banca centrale intendeva mantenere una “normale politica monetaria”, segnalando che avrebbe evitato di introdurre tassi negativi.

“Ho la sensazione che la leadership, anche al momento attuale, ponga una maggiore enfasi sulla stabilità finanziaria rispetto al 2008 e al 2009”, ha affermato Nikolaj Schmidt, capo economista internazionale della divisione attività a reddito fisso della società di gestione fondi T Rowe Price.

Alla fine la Cina avrà un ruolo nella ripresa globale, ha affermato Helen Qiao, capo economista per la regione della Grande Cina presso Bank of America. Con il ritorno delle normali condizioni economiche, ci si aspetta che i responsabili politici avviino lo stimolo fiscale e monetario che aumenterebbe la domanda di materiali e merci all’estero nella seconda metà dell’anno.

Ha aggiunto: “C’è una buona probabilità che la Cina sia stata la prima a scendere e sarà la prima a tornare”.

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