In questa fase di crisi sanitaria, che si sta trasformando in crisi economica e dell’occupazione, il tema della redistribuzione del lavoro e della riduzione della giornata lavorativa emerge con forza. La posta in gioco è immensa. Il numero dei disoccupati cresce come non mai dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Che fare?
Vogliamo tornare al mondo di prima, sperando di riacciuffare il lavoro perso, anche se si trattava di un lavoro pessimo e mal pagato? Oppure vogliamo prendere atto che il mondo della produzione è nelle nostre mani, che c’è bisogno di un cambio di paradigma, che c’è bisogno di assumere i cambiamenti già avvenuti nelle cose, maturando nuovi rapporti?
Sono domande che ci poniamo tutti, e che ho rivolto a Giovanni Mazzetti, già Professore di Economia Marxista all’Università della Calabria, Presidente del Centro Studi e Iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e redistribuzione del lavoro complessivo.
In questi giorni di emergenza la preoccupazione di trovare vuoti gli scaffali dei supermercati è grande. Oggi, più di ieri, è evidente che la nostra sopravvivenza di persone e di lavoratori è legata a quella di altri lavoratori. Si può andare oltre la divisione del lavoro, e assumere un atteggiamento, per così dire, autarchico, oppure si deve interpretare la divisione del lavoro entro un nuovo paradigma sociale?
Il lavoro particolare, unilaterale, è stato il punto di partenza della condizione umana. Vale a dire che i nostri lontani antenati hanno imparato a praticare la produzione in una miriade di forme diverse, ciascuna delle quali era appannaggio solo di questo o quell’organismo locale (tant’è vero che nelle popolazioni meno sviluppate il concetto astratto di lavoro non esiste.)
C’era chi viveva prevalentemente di pesca, e di un tipo particolare di pesca, chi di un tipo particolare di coltivazione, chi di una particolare forma di artigianato, ecc.
L’instaurarsi dello scambio ha trasformato queste realtà, separate le une dalle altre, in un rozzo organismo, facendo prender corpo a quella che oggi è una “divisione” del lavoro. Quest’organismo si è così instaurato spontaneamente, in forma cieca, e solo lentamente riesce a darsi una forma per aggiustamenti successivi.
Il denaro, è stato sin qui la forma con la quale gli individui hanno avviato un prima forma di cooperazione universale. Il fatto che essa sia limitata e contraddittoria non ci deve far dimenticare il ruolo essenziale che ha avuto nello sviluppo dell’umanità.
Con un atteggiamento autarchico non si va oltre la divisione del lavoro, ma si resta al di qua di essa, appunto perché le capacità umane non esistono come un patrimonio naturale, bensì sono il prodotto dei rapporti sociali.
La divisione del lavoro è stata giudicata come la causa principale dell’abbrutimento dell’uomo moderno. In molti si sono spesi per una sua eliminazione, e per un ritorno ad una sorta di stato adamitico di unione, di libertà e di indipendenza. È possibile ritornare a questo stato, oppure ci sarà ancora un lavoro necessario e qualcuno che lo dovrà fare?
Per ragionare su questo punto bisogna ricordare che il mito di Adamo ed Eva rappresenta un rovesciamento della realtà storica. Noi abbiamo cominciato il nostro cammino come scimmie, e le scimmie hanno forme di socialità estremamente rozze, non hanno alcuna forma di indipendenza perché non sono in grado di produrre le condizioni della loro esistenza e tanto meno sono libere, perché l’idea che lo siano deriva da una proiezione che gli esseri umani fanno sulla loro condizione.
Direi che questo tipo di elusione della realtà è il sottoprodotto di quello che Freud ha ben definito come il “disagio della civiltà” che viene rifiutato attraverso proiezioni fantastiche in un immaginario Eden originario.
Sul secondo interrogativo, personalmente concordo con Marx che poiché siamo esseri naturali, non potremo mai emanciparci completamente dal bisogno di dover trasformare la natura circostante per riprodurci. Ma le forme in cui quest’attività interviene non sono in alcun modo univoche.
Ad esempio, il lavoro necessario – che notoriamente si manifesta come un onere – deve essere scaricato su una minoranza o deve coinvolgere tutti (una prospettiva, quest’ultima, che per i sacerdoti del privato rappresenta una bestemmia)?
Una fantasia del genere può venire in mente solo a dei bambini – e nella nostra società molti sono ancora culturalmente dei “bambini” – appunto perché non si sono mai spinti al di là del gioco. Vale a dire che non hanno mai goduto di quella soddisfazione propria della maturità umana, di ritrovarsi nel proprio prodotto e nel mondo che esso contribuisce a creare. Certo poi la determinazione di ciò che è necessario ed il modo in cui soddisfarlo si presenta come un problema del futuro, ed è una questione complessa.
I lavoratori fanno i salti mortali per poter avere un lavoro, e dunque avere un reddito con cui comprare ciò di cui hanno bisogno. In molti sostengono che questi salti mortali potrebbero essere evitati dotando questi lavoratori di un reddito sufficiente, nella forma di un sussidio ai cittadini o alle imprese. Alcuni ritengono che la soluzione sia il controllo della banca centrale e l’immissione sul mercato di denaro creato dal nulla. Il riferimento è ai cosiddetti circuitisti italiani. Il denaro è un mezzo che, distribuito nelle giuste proporzioni, può davvero far uscire dalla crisi?
Quando prende dapprima corpo negli anni sessanta (Robert Theobald) l’idea di un reddito garantito per tutti, fa capolino come risultato ultimo dell’evoluzione “miracolistica” in corso. Si trattava di un modo interessante per dire che tutti i cittadini dovevano essere emancipati con certezza dalla miseria, perché ormai esistevano le condizioni materiali per farlo.
Quando è stata ripresa, a partire dalla fine degli anni ottanta, come rimedio alla crisi, col recedere della fantasia che il mondo si sarebbe trasformato in una cornucopia, ha finito col caricarsi di tutte le possibili contraddizioni.
Ho articolato un’approfondita critica alla proposta di un reddito di cittadinanza nel mio Quel pane da spartire del 1997. E da allora ho avuto conferma che tutte le mie critiche erano fondate. Quello che in Italia è stato definito come tale è in realtà una sacrosanta indennità di disoccupazione, che andrebbe estesa ben al di là dei limiti attuali, ma che non ha nulla a vedere con dei passi avanti rispetto alle indennità di disoccupazione pensate ad inizio Novecento nei paesi più avanzati.
Se qualcuno vuole garantire ai lavoratori un reddito con cui comprare ciò di cui hanno bisogno, deve allo stesso tempo affrontare il problema del modo in cui produrre gli oggetti e i servizi di questo fabbisogno. Insomma bisogna tener conto di tutti i momenti del processo riproduttivo, non cercare di far leva solo sul momento finale.
Sulla seconda parte della domanda è necessario soffermarsi brevemente. I circuitisti sottolineano giustamente un fenomeno storicamente positivo: la creazione di moneta da parte delle banche, attraverso il credito. Questo consente agli imprenditori di scambiare il loro prodotto prima del presentarsi della domanda finale. Quindi c’è una ricchezza reale che trova difficoltà a riversarsi sul mercato, ma grazie all’immissione di un denaro fiduciario può entrare in circolazione.
Quando Keynes si batte per le politiche economiche che propugna, insiste per la creazione di una moneta fittizia – che lui chiama “formaggio erborinato” – per permettere allo Stato di produrre quei beni che entrano nella soddisfazione dei diritti sociali.
Questa strategia si scontra con un limite quando lo Stato comincia a non rientrare più delle sue spese per il ridursi degli effetti moltiplicativi sul reddito. Mentre i privati continuano a poter godere della creazione di moneta – perché sono sottomessi al pagamento dei loro debiti – lo Stato viene escluso (nel 1982) da questa possibilità perché, keynesianamente, non è previsto che venda i suoi prodotti. E quindi non dà garanzia di ripagare il debito crescente.
Insomma, la riproduzione del denaro come condizione dello svolgimento dell’attività produttiva genera un blocco. E’ così comprensibile che si fantastichi di risolvere il problema là dove l’intoppo si presenta. Ma è sbagliato perché quell’intoppo è la testimonianza che l’intero processo riproduttivo è divenuto contraddittorio.
Ora, i sostenitori del reddito di base o di cittadinanza, vanno molto al di là dei circuitisti, dicendo, creiamo un denaro per dare a tutti un reddito, a prescindere dal lavoro. Ma questo equivale a sostenere che ormai siamo entrati in un’epoca nella quale i beni esistono a prescindere dallo svolgimento di un’attività produttiva.
Federico Caffè parlava dello Stato come di un «occupatore di ultima istanza». Può ancora lo Stato giocare questo ruolo?
Personalmente credo che la funzione positiva dello Stato si sia esaurita nella seconda metà degli anni settanta. In alcuni paesi all’epoca più di un terzo della forza lavoro era occupata dalla pubblica amministrazione. E ovunque cresceva la soddisfazione dei diritti sociali (istruzione, sanità, previdenza, protezione civile, ecc.).
Ma in nessun paese i rappresentanti politici sono stati in grado di confrontarsi con l’improvvisa difficoltà di riprodurre il lavoro emersa all’epoca. L’unico sbocco, come previsto da Keynes, a questo nuovo problema sarebbe stato quello della redistribuzione del lavoro. Ma l’incapacità di concepire questa svolta ha finito col far crescere il lavoro inutile, il clientelismo e l’inefficienza.
Quali sono stati i suoi rapporti con Federico Caffè?
Per ridurre la risposta all’osso direi di reciproca stima critica. Le sue lezioni sono state le sole che ho seguito nella mia carriera universitaria e in una facoltà particolarmente conservatrice ci siamo incontrati nel tentativo di smuovere le acque. Ti basti dire che in occasione di un’occupazione della facoltà durata 29 giorni, ci ha finanziato, e mi ha personalmente sottratto ad una retata della polizia, facendomi scappare da un’uscita secondaria dell’istituto al momento dell’arrivo degli agenti.
Caffè criticava la mia irruenza, ma spesso era contento che ci fosse. Debbo a lui se sono diventato un docente universitario, perché da un lato ha sostenuto la mia tesi, dall’altro mi ha consentito di partecipare ad un concorso appena laureato.
Poiché ho preso molto seriamente i miei impegni presso l’Università della Calabria, trasferendomi a Cosenza, dove la nuova università partiva su presupposti di grande valore, i nostri contatti si sono ridotti, e in alcune occasioni sono diventati tesi perché la mia interpretazione di Keynes non lo convinceva.
Tuttavia, chi gli è stato vicino fino alla fine mi ha confidato che ha sempre conservato un alto giudizio del mio operato.
Le sue ricerche sulla redistribuzione del lavoro iniziano negli anni Settanta, e trovano la prima espressione nel libro, pubblicato nel 1986, Scarsità e redistribuzione del lavoro. Come è arrivato ad Arcavacata, come è nata l’idea di una cattedra di Economia Marxista, in un periodo in cui Marx era considerato un «cane morto»?
In realtà avevo scritto un testo molto più pretenzioso, intitolato Oltre il pieno impiego, che era stato accettato da Einaudi per la pubblicazione, ma Caffè diede un parere negativo. Così dovetti smembrare il testo, che fu raccolto in due volumi. Oltre a quello che hai citato, c’è subito dopo La dinamica e i mutamenti sociali del lavoro, pubblicato da Rubbettino.
Non ebbi modo, all’epoca di conoscere il parere di Caffè su di essi, perché gli altri membri dell’Istituto a Roma avevano creato un “cordone sanitario” attorno a lui, per evidenti problemi di rapporto reciproco. E subito dopo scomparve.
Devo a lui la chiamata a Cosenza nel 1972. All’epoca però c’era un nesso profondo tra quello che avevo approfondito della tesi (sullo sviluppo urbanistico e abitativo di Roma, analizzato soprattutto le borgate piene di calabresi. Nella baraccopoli in cui ero andato ad abitare c’erano 4.500 calabresi:) e un’iniziativa che avevo messo in piedi a San Luca (fantasticando di affrontare il problema a monte) dapprima organizzando un gruppo di intervento, poi arrivando a conquistare un Centro studi e iniziative locale (con una ventina di giovani).
La chiamata a Cosenza fu il corollario di questa evoluzione. Purtroppo un’alluvione che devastò San Luca e generò una conflittualità incontrollabile sui risarcimenti pubblici, mi spinse a porre fine alla mia iniziativa.
Nel 1985 l’esperienza positiva della nuova università era a sua volta naufragata. Insegnando Marx, come professore stabilizzato, quando ho vinto il concorso da associato ho deciso che, essendo incluso tra gli insegnamenti previsti dallo statuto della facoltà, il corso dovesse chiamarsi “Economia marxista”.
Marx all’epoca non era ancora considerato un “cane morto”. Lo divenne subito dopo, e il mio insegnamento fu soppresso da una sedicente “riforma”, ricollocandomi d’autorità niente meno che in Analisi Economica. Inutile dire che ho continuato ad insegnare Marx e ho cercato di sviluppare il mio pensiero avvalendomi delle conquiste che il suo pensiero aveva permesso di acquisire.
Ovviamente per farlo ho dovuto esser convinto che gli studenti fossero interessati a quello che stavo dicendo e che quello che imparavo, insegnando, meritasse la loro attenzione e il loro impegno.
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