Un decennio nero, quello che va da 2008 al 2018, per i paesi dell’Unione Europea che si affacciano sul Mediterraneo, e che nella UE sono quelli economicamente più fragili.
La Grecia subisce un vero e proprio “crollo” degli investimenti, con l’indice totale che passa dal 23,8% del 2008 all’12,9% del 2018, evidenziando una contrazione fortissime degli investimenti nel proprio mercato nazionale (passando dal 10,6% del 2008 ad appena il 2,4% nel 2018).
La Spagna passa da una percentuale di investimenti totali pari al 29,2% del 2008 ad un 20,5% del 2018, con pesanti e più evidenti riduzioni percentuali sia in termini di investimenti pubblici che di investimenti nel proprio mercato nazionale.
Stesse considerazioni valgono per l’Italia (che riduce la propria percentuale di investimenti totali dal 21,2% del 2008 al 18% del 2018) e per il Portogallo (che riduce i propri investimenti totali dal 22, 8% del 2008 al 17,1% del 2018).
Per quanto riguarda i Paesi egemoni nel quadro UE, Germania e Francia, la dinamica registrata è invece di segno assai diverso. Osservando l’evoluzione della percentuale degli investimenti totali, la Germania conserva sostanzialmente la propria percentuale di investimenti totali rispetto al PIL (20,3% nel 2008 a fronte del medesimo 20,3% del 2018) mentre la Francia, che pure conosce una flessione, mantiene quasi inalterato il proprio livello di investimenti (23,6% nel 2008 e 22,5% nel 2018).
Per quanto riguarda i mutamenti in termini di investimenti intervenuti nei Paesi dell’Est Europa, è da rilevare il pesante crollo degli investimenti totali avvenuto in Bulgaria (–15% circa), Romania (- 14% circa), Estonia (-16% circa), Lituania (-7% circa), Lettonia (- 11% circa).
Tutti questi Paesi, in più, si caratterizzano per livelli estremamente bassi di investimenti rivolti all’interno dei rispettivi mercati nazionali. Per quanto riguarda gli altri Paesi del Nord Europa, la tendenza registrata nel decennio è quella di una flessione negativa della percentuale, sostanzialmente contenuta: si tratta di Danimarca (- 0,5%), Finlandia (-1,7%), Regno Unito (che conserva il 17,2%), Lussemburgo (-1,5% circa), Paesi Bassi (-1,5% circa), Belgio (-0,5%).
Sono questi i dati analizzati dal CESTES, il Centro Studi del Sindacato USB diretto da Luciano Vasapollo e Rita Martufi, raccolti in un rapporto pubblicato in collaborazione con PROTEO. E’ stata presa in esame la ricchezza prodotta annualmente da ciascun Paese membro della UE, a partire dall’andamento del PIL reale.
Così, tra il 2007 ed il 2017, è possibile riscontrare evidenze assai articolate, ma quasi tutte ben lontane da tassi di crescita significativa (eccezion fatta per Paesi come Polonia, Romania, Slovacchia, Irlanda o Bulgaria; certamente Paesi ben lontani da rappresentare il cuore economico e produttivo UE). Registrano saldi negativi la Grecia (- 2,9%), l’Italia (-0,6%), il Portogallo (-0,1%), la Croazia (- 0,2%).
Per il complesso degli altri Paesi UE, si registrano tassi di crescita vicini ad una situazione “stagnante” (o, comunque, non superiore all’1%), con eccezioni significative a livello macroeconomico rappresentate da Germania (1,2%) o Regno Unito (1,1%).
Guardando ai dati in termini di crescita reale del PIL nel biennio 2018 – 20192, i dati sicuramente più interessanti sono quelli riguardanti la Germania, che passa da una crescita di 1.5 del 2018 (di molto inferiore al tasso di crescita dell’anno precedente, pari a 2.5, e in generale alla media dei paesi UE e dell’Eurozona) ad un livello estremamente contenuto pari a 0.6, certificando l’insorgere anche nella locomotiva tedesca di una recessione che va intesa come conseguenza del proprio modello mercantilista.
Rispetto alle dinamiche di attacco sulle retribuzioni, di grande interesse sono poi i dati specifici relativi alla componente salari del costo del lavoro negli anni più recenti.
Nel 2018, nell’insieme dei Paesi UE l’incidenza dei salari è pari al 20.9, mentre nell’eurozona l’indice è pari a 22.8. Ma tra i singoli Paesi coesistono dinamiche e valori estremamente differenziati. Se l’incidenza dei salari in Germania è pari a 27.0, in Bulgaria essa si attesta a 4.5; se in Francia si riscontra un 24.1, in Romania il valore di questo indicatore è circa 4; se in Danimarca l’apporto dei salari si attesta a 37.4, in Italia esso è quantificabile in 20.2, in Portogallo in 11.3, in Spagna in 16.0, in Grecia in 12.6.
Pertanto, non solo il panorama del costo del lavoro generale in quanto tale è profondamente diversificato a seconda del Paese UE considerato, ma la stessa componente salariale appare si presenta iperbolicamente diseguale.
* da Il Faro di Roma
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