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Rassegnarsi al declino? E perché mai…

Il sistema attuale di governance nel Vecchio Continente non funziona più. Dopo 40 anni in cui l’unico “successo” rivendicabile è l’aver congelato inflazione, distruggendo il valore del lavoro e i salari corrispondenti.

In realtà, se non vi fosse stata – dopo l’89 – una ciclopica delocalizzazione produttiva verso i Paesi di nuova industrializzazione (Cina in primis), in cui il costo del lavoro era inizialmente pari allo zero virgola, neanche quel “successo” sarebbe stato conseguito.

Comunque sia, ora non sta più in piedi e l’unica dinamica attiva è l’autofagia. I Paesi con le economie più forti, tramite i meccanismi costrittivi dell’Unione Europea, “sussumono” risorse e asset di quelli più deboli.

Uno dei meccanismi più forti è stato addirittura inventato in Italia, quando – nel 1981 – il ministro del tesoro Nino Andreatta decretò “il divorzio” tra il suo ministero e la Banca d’Italia. In concreto, la banca centrale non poteva più partecipare alle aste di collocazione dei titoli di stato. Cosa che aveva sempre contribuito a tenere basso il rendimento dei titoli stessi (e quindi degli interessi da pagare), perché Bankitalia comprava “a prezzo pieno” mentre gli operatori di mercato puntavano logicamente a pagare il meno possibile.

Quella decisione di Andreatta – il vero “maestro” di Romano Prodi e di tutti i successivi protagonisti delle politiche finanziarie pubbliche (di destra e di centrosinistra) – aveva una motivazione ufficiale “virtuosa”: bloccare la crescita del debito pubblico (allora intorno al 60% del Pil) tramite il “vincolo esterno” rappresentato dai “mercati”.

In pratica, secondo le teorie monetariste dominanti, i governi sarebbero stati costretti a ridimensionare la spesa per non dover veder crescere la dimensione degli interessi da pagare sui titoli (il cosiddetto “servizio del debito”).

Un ragionamento da ragioniere che si è rivelato ben presto suicida. Governare un Paese non è come amministrare una piccola impresa o un bilancio familiare, ci sono spese incomprimibili per ragioni politiche e sociali, al di là della scontata “avidità” personale di una classe politica già allora non irreprensibile.

Di fatto, il debito pubblico cominciò proprio allora a correre senza più fermarsi, nonostante fossero tagliate spese sociali ad ogni legge finanziaria (oggi “legge di stabilità”), nonostante fosse dismesso quasi tutto il patrimonio di imprese pubbliche (Telecom, Alitalia, l’Iri, le cinque banche di “interesse nazionale”, ecc).

Quel “vincolo esterno” fu addirittura accolto e rafforzato con gli accordi di Maastricht (1992) e la successiva introduzione dell’euro. Creando quella situazione tragica che ormai conosciamo bene: si taglia la spesa, si cancellano servizi sociali e diritti, si congelano salari e pensioni, si accantona annualmente un “avanzo primario”… e il debito pubblico cresce lo stesso.

La crisi del 2008 e ora quella fatta esplodere dalla pandemia mettono il nostro Paese in una situazione insostenibile. Bisogna per forza aumentare la spesa pubblica per ripianare il tracollo del sistema privato (soldi alle imprese di ogni dimensione, ed anche per gli ammortizzatori sociali temporanei), incrementare il debito tramite la compartecipazione al Recovery Fund (non sono “soldi che ci arrivano dall’Europa”, ma debiti che facciamo insieme alla UE), e già ora arrivano gli ammonimenti a riprendere la strada dell’austerità e dei tagli (vedi il presidente di Bundesbank Jens Weidmann, il cancelliere austriaco Kurz e la stessa Unione).

Servono soldi subito per far ripartire l’economia, ma se si prendono a debito la vedremo crollare subito dopo, con aggravamento della situazione per grandi parti della popolazione.

I “campioni europeisti” di entrambi gli schieramenti, e ormai anche i Cinque Stelle, ci dicono che “non c’è alternativa”, anche se poi condiscono con balle diverse la stessa impostazione.

Eppure le alternative, anche all’interno del sistema attuale, ci sarebbero. Alcune vietate, alcune no, altre da “ricontrattare”…

Lorenzo Toglia, ex alto dirigente al tesoro, ora in pensione, ha scritto un libro (Il nuovo risorgimento nell’epoca della globalizzazione, OnTheWave Edizioni), in cui vengono ripercorse le vicende che hanno portato alla situazione attuale. E i temi centrali sono appunto il divorzio tesoro/Bankitalia, il ruolo della Bce, l’ipotesi di un “fondo sovrano” (ce ne sono diversi, anche europei) e di una nuova Iri.

Una rapida occhiata all’abstract del testo illumina sulla ricchezza di strumenti utilizzabili fin da subito. E pone certamente molte domande – cui da anni cerchiamo anche noi di dar risposta – sulle ragioni di un degrado voluto, ricercato, programmato, per i Paesi del Sud Europa.

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Il nuovo risorgimento nell’epoca della globalizzazione (sintesi)

Al fine di abbattere il debito pubblico, l’autore propone la costituzione di fondi di investimento raggruppati in un fondo sovrano (gestito da società di proprietà del Tesoro). Le quote di quest’ultimo sarebbero poi da scambiare con titoli di Stato in circolazione.

I fondi potrebbero essere composti da asset pubblici come infrastrutture (porti, aeroporti, autostrade e ferrovie ecc.), partecipazioni azionarie (tra cui Cassa Depositi e Prestiti, Leonardo Finmeccanica, Poste Italiane, Fincantieri, ecc.), immobili sdemanializzati, concessioni di beni e siti culturali. ecc.

Il valore può essere quantificato fino a 700 miliardi di euro, secondo uno studio de IlSole24Ore.

Lo scambio (mediante formale offerta pubblica) delle quote del fondo sovrano con i titoli di Stato può abbattere il debito pubblico, nell’ipotesi in esame, di circa 600 miliardi (da 2400 a 1800 circa).

Considerato che occorre adottare politiche espansive in deficit al fine di contrastare la crisi da covid 19, l’operazione consentirebbe di contrastare il paventato innalzamento del rapporto debito PIL al 150%, in modo da accedere al mercato finanziario a tassi meno onerosi.

Si conseguirebbero anche gli obiettivi di:

– utilizzare le risorse liberate dal pagamento degli interessi sul debito per la crescita;

– attrarre investimenti per la messa a reddito del patrimonio acquisito;

– tutelare i beni culturali, facendone anche un mezzo di redditività diretta ed indotta, grazie alla gestione imprenditoriale da parte di società culturali-turistiche di partecipate dal fondo;

– difendere e diffondere il made in Italy, rilevando anche temporaneamente le imprese in crisi o in via di cessione sul mercato e cercando di far sinergia tra imprese e distretti produttivi, sopratutto mediante l’incentivazione della ricerca scientifica.

– stroncare la disoccupazione grazie in particolare agli investimenti.

– proteggere l’interesse nazionale nei settori industriali strategici, oggetto anche di attenzione da parte del COPASIR;

Ovviamente, il fondo sovrano non va visto come il gestore statico degli asset ex pubblici detenuti, bensì come un attore dinamico che può, anche previa raccolta di risparmio, acquisire partecipazioni in altre imprese o addirittura a promuoverne di nuove.

Il fondo sovrano può adempiere inoltre al ruolo di promotore degli investimenti nel Paese e, contestualmente contribuire al rientro nel rapporto debito pubblico/ PIL.

Sull’improvviso e devastante problema della crisi da Covid 19, l’autore suggerisce di accantonare eurobond, MES ed altre costruzioni barocche e chiedere in sede europea la modifica dello Statuto della BCE in modo di consentirle di dare liquidità (senza obbligo di rimborso) agli Stati membri nella misura, ad esempio, del 15% del PIL (250 miliardi circa per l’Italia) da destinare a sgravi fiscali, bonus, contributi a fondo perduto ed altri incentivi.

Qualora, com’è probabile, non si raggiungesse un accordo in sede europea, si dovrebbe al fine di reperire i fondi suindicati:

1. emettere biglietti di Stato (non vietati dal TFUE), da utilizzare a supporto delle imprese con contributi a fondo perduto, sgravi fiscali, bonus, ecc.

2. cantierare subito, sospendendo l’applicazione del farraginoso codice degli appalti le opere pubbliche già previste e finanziate, nonché avviare un piano di opere pubbliche finanziate da obbligazioni emesse ad hoc da parte dei soggetti attuatori (partecipati dai fondi di investimento);

3. attuare una incisiva revisione della spesa pubblica parassitaria con un sistema di controllo permanente (benchmarking) in modo da evitare quegli sprechi che hanno fatto lievitare il debito pubblico e consentire di liberare ulteriori risorse per al crescita.

4. autorizzare le Agenzie fiscali ad emettere obbligazioni utilizzabili per il pagamento di imposte, tasse e tributi in genere.

Le operazioni indicate ai punti 1, 2 e 4 non rientrerebbero nelle statistiche Eurostat e pertanto non potrebbero essere conteggiate come debito pubblico aggiuntivo, mentre il punto 3 costituirebbe un serio strumento alla eliminazione di quei meccanismi interni alla pubblica Amministrazione (in senso lato) che hanno contribuito e contribuiscono tuttora alla lievitazione del debito pubblico.

A tal fine, l’autore propone in allegato una bozza di decreto legge.

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