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Draghi non viene in pace: la condizione per il Recovery Fund è l’austerità

Mentre si lavora per assicurare al Presidente del Consiglio incaricato, Mario Draghi, la più ampia maggioranza parlamentare per dare vita – dieci anni dopo l’esperienza del Governo Monti – all’ennesimo governo tecnico, sul piano comunicativo si ripete come un mantra il seguente messaggio: “Monti è stato chiamato per tagliare la spesa, Draghi invece è stato chiamato per spendere le risorse concesse all’Italia dall’Unione Europea”.

Questo mantra veicola una rassicurazione tutta politica: “Non temete, l’esperienza tragica della macelleria sociale operata da Monti non si ripeterà; al contrario, Draghi viene in pace per spendere nel migliore dei modi possibili quei fiumi di denaro che le istituzioni europee elargiscono”.

Sembrerebbe un ottimo auspicio. Purtroppo, si tratta di volgare propaganda, come è evidente se si passa dal piano comunicativo alla materialità dei documenti istituzionali che, nero su bianco, disciplinano il funzionamento del Recovery Fund.

La falsa rassicurazione circa il compito assegnato al Governo Draghi poggia su due assunti.

Il primo assunto, esplicito, è che l’Italia possa beneficiare di un trasferimento di risorse di entità straordinaria da parte dell’Unione Europea: ci troveremmo letteralmente ricoperti d’oro, o meglio di euro, ed avremmo solo il bellissimo problema di come spendere bene questi soldi piovuti da Bruxelles.

Il secondo assunto, implicito, è che – proprio mentre scorrono questi fiumi di denaro – le istituzioni europee abbiano abbandonato il paradigma dell’austerità, che ne ha caratterizzato storicamente l’operato: saremmo insomma liberi dai fatidici vincoli alla spesa pubblica, e potremmo spendere e spandere per rilanciare l’economia ed arginare la crisi pandemica.

Da questi due assunti discende la tesi, che è la narrazione dominante sul ruolo di Mario Draghi, secondo cui il Premier incaricato non farebbe altro che mettere al servizio dell’Italia la sua competenza, utile a sfruttare la congiuntura astrale dell’abbattimento dei vincoli fiscali (sospensione del Patto di Stabilità) e monetari (i soldi del Recovery Fund).

Abbiamo già avuto modo di trattare in maniera approfondita il primo assunto, che ad un’attenta analisi si rivela palesemente falso, come confermato anche da acuti osservatori.

La narrativa dominante vorrebbe che l’Italia beneficiasse di 209 miliardi di euro, una cifra apparentemente consistente. Ma basta entrare nel dettaglio per scoprire che 1) quel denaro si suddivide su sei anni, 2) in buona parte va a sostituire altre spese già presenti nel Bilancio dello Stato, 3) deve essere considerato al netto dei trasferimenti che l’Italia sarà chiamata ad effettuare nei confronti delle istituzioni europee, sia per quanto riguarda il Recovery Fund, sia per quanto concerne il Quadro Finanziario Pluriennale.

E come per magia, dalla cifra astronomica di 209 miliardi di euro si passa ad ipotizzare un ammontare inferiore a 10 miliardi di euro all’anno per i prossimi sei anni, compresa verosimilmente tra i 6 e gli 8 miliardi annui, pur considerando una stima ottimistica circa i risparmi sugli interessi dei prestiti, oltre ai trasferimenti netti.

Per capire se queste risorse sono un fiume di denaro, un’occasione imperdibile, una novità di portata storica, abbiamo bisogno di un termine di paragone. Nei primi dodici mesi di pandemia, l’Italia ha speso circa 165 miliardi di euro, 108 nel 2020 a cui si aggiungono i 32 miliardi dell’ultimo Decreto Ristori e i 24 miliardi della Legge di Bilancio 2021.

Una cifra che si è comunque rivelata insufficiente per fronteggiare la crisi sanitaria, economica e sociale, come dimostrano gli oltre 90.000 morti per Covid-19, gli oltre 400mila lavoratori e lavoratrici che hanno perso il posto, i settori economici entrati in crisi e le scuole chiuse.

Dunque, quando gli 8 miliardi di euro (siamo ottimisti!) vengono raffrontati ai 165 già spesi, ci rivelano la loro reale portata: il Recovery Fund mette a disposizione dell’Italia una cifra a dir poco esigua rispetto alle esigenze imposte da una pandemia che, solo nel suo primo anno, ha cancellato oltre 160 miliardi di euro di PIL.

Il secondo assunto, per cui saremmo fuori dal paradigma dell’austerità, è stato seppellito definitamente martedì 9 febbraio, quando il Parlamento europeo ha varato l’ultima bozza di Regolamento del Recovery Fund, per l’occasione sostenuto anche dai voti favorevoli degli europarlamentari leghisti, finora intrappolati nella comica parte degli “eroici difensori” degli interessi nazionali contro le ingerenze europee.

Ebbene, all’art. 10, il Regolamento ci dice chiaramente che: “La Commissione presenta al Consiglio una proposta di sospensione totale o parziale degli impegni o dei pagamenti qualora il Consiglio … decida che uno Stato membro non ha adottato misure efficaci per correggere il disavanzo eccessivo, a meno che non abbia determinato l’esistenza di una grave recessione economica dell’Unione nel suo complesso”.

Questo significa, oltre ogni ragionevole dubbio, che i soldi del Recovery Fund saranno concessi solo in cambio di misure di austerità, ovvero “misure efficaci per correggere il disavanzo eccessivo” nel linguaggio che tanto piace ai tecnici.

Ricordiamoci che le risorse del Recovery Fund arriveranno nel corso di sei anni: non appena saremo fuori dalla fase emergenziale, verrà ripristinato in pieno il controllo dei conti pubblici. Quei fatidici 8 miliardi all’anno diventeranno l’unico lumicino di spesa consentito all’interno di un quadro di finanza pubblica costretto nelle maglie dell’austerità dal Regolamento che disciplina il funzionamento dello stesso Recovery Fund.

Ogni euro gentilmente concesso all’Italia ci impedirà di spendere 10, 20, 100 euro in disavanzo che sarebbero necessari per affrontare seriamente la crisi.

È il ricatto della condizionalità: le istituzioni europee vincolano con i loro aiuti l’operato dei governi nazionali per realizzare un disegno politico, l’austerità, che mira ad abbattere anche gli ultimi residui di stato sociale presenti nel nostro Paese.

In conclusione, l’idea per cui il Governo Draghi sarebbe radicalmente diverso dal Governo Monti si rivela totalmente infondata per due motivi.

In primo luogo, non c’è alcun fiume di denaro che scorre da Bruxelles a Roma, ma solo una mancetta per i partiti che sono chiamati a garantire stabilità parlamentare e pace sociale in vista dell’applicazione di misure draconiane.

In secondo luogo, quella mancetta è però sufficiente a legare le mani per i prossimi anni a qualsiasi futuro Governo, che sarà vincolato al rigido rispetto dell’austerità dal Regolamento del Recovery Plan.

Fuori da ogni retorica rassicurante, Draghi viene a fare quello che i tecnici hanno sempre fatto: la macelleria sociale, ma con tanta competenza.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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