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Chi fa smart working lavora di più e guadagna di meno

E’ emblematico del presente e del futuro del lavoro da remoto (cd smart working) lo studio elaborato dall’Office for National Statistics – ossia l’istituto statistico britannico. Si tratta di uno studio, molto completo, sugli effetti del lavoro da casa sul reddito individuale e sulle prospettive di carriera. Il quadro che ne esce fuori è – come prevedibile – molto negativo.

Lo studio dell’Ons, copre anche il periodo della pandemia di Covid, e rivela – brutalmente – come chi pratica il lavoro da remoto o smart working, tendenzialmente lavora di più, guadagna di meno e ha ninori possibilità di avanzamento in carriera rispetto a chi lavora in ufficio, e neanche di poco.

Dalla ricerca emerge infatti che chi ha lavorato principalmente da casa nel periodo 2013-2020 ha avuto il 37,7% di possibilità in meno di prendere un premio di produzione e che i lavoratori da casa hanno oltre il 50% di possibilità in meno di ricevere una promozione.

Durante la pandemia poi, chi ha lavorato da casa ha effettuato mediamente sei ore la settimana di straordinari non retribuiti rispetto alle 3,6 ore di quelli che non hanno mai lavorato dalla propria residenza.

Infine, dai dati relativi all’autunno 2020 è emerso come gli homeworker abbiano avuto una maggiore probabilità di dover lavorare anche la sera rispetto a chi ha continuato ad andare regolarmente in ufficio.

E’ vero che stiamo parlando del mercato del lavoro britannico che è molto diverso da quello italiano, ma visto il livello di subalternità verso il modello anglosassone, niente esclude che anche nel mercato del lavoro del nostra paese possa emergere una nuova e peggiorativa divisione permanente del lavoro tra i nuovi “cottimisti”, cioè lavoratrici e lavoratori  che prestano servizio da casa, e quelli che operano sul luogo di lavoro, obiettivamente più relazionati e “a portata di mano” nella percezione dei loro manager e dei loro dirigenti, più “in carriera”, più informati e più facilmente raggiungibili dalle opportunità che si presentano.

Il caso limite è quello di Londra dove, durante i lockdown, oltre il 55% dei dipendenti ha lavorato da casa, non solo distruggendo il settore della ristorazione ma spingendo sull’orlo del fallimento anche l’underground, la metropolitana, con i suoi immensi costi fissi che prescindono dalla presenza o meno di passeggeri paganti per coprirli. E se poi i lavoratori non tornassero più in ufficio?

L’iniziale entusiasmo ufficiale per l’homeworking – comune a molte istituzioni  ed aziende europee – si sta rapidamente trasformando in preoccupazione, serissima.

Del resto in più occasioni abbiamo segnalato su questo giornale le contraddizioni e la regressione per le condizioni di lavoro che si celano dietro un lavoro da remoto – o smart working se proprio non potete fare a meno degli anglicismi – che nella visione di molte aziende private o pubbliche viene inteso come reintroduzione del cottimo.

Per le lavoratrici poi – le più esposte ad una condizione tesa a dover conciliare lavoro salariato e lavoro di cura gratuito – la tagliola sarebbe anche peggiore, andando ad  acutizzare la divaricazione già esistente proprio sul piano retributivo e delle opportunità di avanzamento.

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