Il vertice di Porto si è chiuso con l’ennesimo proclama entusiasta della Commissione europea che promette di raggiungere obiettivi fantasmagorici entro il 2030. Per fortuna, questa volta persino la stampa filoeuropeista si è accorta che si tratta di impegni ‘morali’ perché, come siamo abituati a vedere, di concreto non c’è un bel nulla. Anzi.
Nel consesso portoghese si è data grande enfasi al cosiddetto ‘Pilastro dei diritti sociali’, una delle patine zuccherine che l’Unione europea ha inserito nella sua agenda fatta di austerità e liberismo.
Tre gli obiettivi da raggiungere entro il 2030, fissati dalla Commissione europea e ribaditi al summit di Porto, per dare attuazione al suddetto pilastro: un tasso di occupazione nell’insieme dei paesi UE di almeno il 78%; una partecipazione di almeno il 60% degli adulti a corsi di formazione ogni anno; la riduzione del numero di persone a rischio di esclusione sociale o povertà di almeno 15 milioni (di cui 5 milioni di bambini).
Risuona così l’eco della famosa Agenda Europa 2020, che fissava come obiettivi – per l’anno appena trascorso – su per giù i medesimi traguardi: almeno il 75% della popolazione europea occupata nella stessa fascia d’età; ridurre di 20 milioni il numero delle persone a rischio di povertà o di esclusione sociale; ridurre il tasso di abbandono scolastico a meno del 10% e portare almeno al 40% il tasso dei giovani laureati.
Verrebbe giustamente da chiedersi se questo apparente slancio sociale abbia segnato e possa segnare ora un cambio di passo dalla grigia Europa di Maastricht, del Fiscal Compact e del rigore di bilancio, ad un’Europa preoccupata di porsi prioritariamente obiettivi sociali e occupazionali.
Purtroppo, la risposta negativa a questa domanda è già scritta nell’evidenza coriacea dei fatti: non solo i vari accordi sul tema, sin dalla Strategia di Lisbona (2000), non hanno certo impedito di perseguire con fede incrollabile il disegno dell’austerità fiscale, ma, anzi, essi erano pienamente coerenti ed integrati nella strategia complessiva dell’Unione europea, al netto degli obiettivi altisonanti.
Come vedremo, infatti, nel declinare la via per raggiungere i traguardi prefissati, emerge la consueta piena adesione al pensiero dominante: il liberismo economico. Soffermandoci sull’obiettivo occupazionale, infatti, nelle intenzioni scritte nere su bianco di Agenda Europa 2020, deve essere perseguito attraverso delle riforme ispirate ai principi della flessicurezza, meglio conosciuta con il termpine inglese flexicurity.
Che cos’è la flessicurezza? Una combinazione di estrema flessibilità di assunzione (flessibilità in entrata), estrema facilità di licenziamento (flessibilità in uscita), accompagnata da un adeguato sistema di politiche attive e di ammortizzatori sociali (la sicurezza).
Si tratta del noto modello teorico liberista per cui per creare nuovi posti di lavoro serve flessibilità di entrata e di uscita e una formazione continua dei lavoratori. A fronte – ci raccontano – di una inevitabile minor sicurezza di conservazione del posto di lavoro, la maggior flessibilità garantirebbe nuove opportunità occupazionali, risultando in ultima istanza un vantaggio per i lavoratori che riuscirebbero a ritrovare il lavoro perso godendo nel mentre di un sistema di ammortizzatori sociali di emergenza.
Questa lettura, tuttavia, parte da un presupposto completamente errato ed arriva a conclusioni ancora più errate. Il presupposto è che la disoccupazione di massa dipenderebbe, in primo luogo, dalle – sempre più residuali – norme di tutela dai licenziamenti che impedirebbero il fluido ricambio di manodopera, e, in secondo luogo, dalle scarse competenze dei lavoratori.
Una lettura del mondo al rovescio che ignora testardamente la vera e unica causa della mancanza di lavoro: la carenza cronica e prolungata da decenni della domanda di beni e servizi, che porta la produzione ad un livello drasticamente inferiore a quello che garantirebbe il pieno impiego dei lavoratori.
Dato il presupposto errato, la ricetta è non soltanto inutile, ma gravemente dannosa. Maggior libertà di licenziare e riduzione dei costi del lavoro in fase di assunzione non solo non hanno alcun effetto positivo sull’occupazione, ma hanno senza dubbio un effetto fortemente negativo sul potere contrattuale dei lavoratori e dunque sui salari e le condizioni di lavoro in generale. Salari più bassi e lavoro più precario e con carriere interrotte significa diminuzione della domanda aggregata e peggioramento della stessa dinamica occupazionale: insomma, lavoratori più poveri e maggior disoccupazione.
Se è vero che la storia si ripete sempre due volte, al vertice di Porto è sicuramente andata in scena la farsa. L’obiettivo decennale del 75% del tasso di occupazione viene rivisto al rialzo solo del 3%.
Ma davvero stavamo viaggiando con decisione verso la meta della piena occupazione? I dati Eurostat possono venirci in aiuto. A parte la Germania, tutte le grandi economie dell’Unione europea alla vigilia della pandemia erano distanti dall’obiettivo prefissato del 75% del tasso di occupazione (20-64 anni).
Nel 2019, l’Italia si assestava al 63,5%, la Grecia al 61,2%, la Spagna al 68% e la Francia al 71%, valori diminuiti ovunque nel 2020. Ciò che impressiona, tuttavia, è la sostanziale stagnazione di questi valori che dura da ormai molti anni e risulta particolarmente evidente dal 2010. In Grecia, paese duramente colpito dalle politiche di austerità, il tasso di occupazione è addirittura diminuito di quasi 3 punti percentuali (nel 2010, era al 63,8%); mentre in Italia e in Francia è aumentato di appena 3 punti in undici anni.
Basterebbe questo a testimoniare la smentita dei buoni propositi della Commissione: senza domanda di lavoro, ossia se il sistema produttivo non ha necessità di assumere, non si crea occupazione. Va da sé che le politiche di tagli e austerità, contraendo la domanda aggregata, deprimono la domanda di lavoro e quindi l’occupazione.
Se il vertice di Porto era la farsa, il Presidente del Consiglio del nostro paese veste bene i panni della tragedia. Nel fotografare, infatti, la drammatica situazione del mercato del lavoro italiano, che mostrerebbe un tasso di occupazione femminile di 20 punti percentuali inferiore a quello maschile, Draghi rispolvera l’ormai vetusta – eppure mai doma – retorica del dualismo del mercato del lavoro, e dei lavoratori privilegiati a scapito di altri lavoratori più sfortunati.
Le parole sono impietose e, da parte di chi dovrebbe essere anche un esperto economista, alquanto imbarazzanti. Riguardo alla più difficile condizione di giovani e donne nel mondo del lavoro italiano, infatti, Draghi afferma che si tratta di “fratture che hanno profonde radici storiche e culturali, ma svelano anche evidenti carenze istituzionali e giuridiche” e che siamo di fronte a un “mercato del lavoro a doppio binario, che avvantaggia i garantiti – in genere i lavoratori più anziani e maschi – a spese dei non garantiti, come le donne e i giovani. Mentre i cosiddetti garantiti sono meglio retribuiti e godono di una maggiore sicurezza del lavoro, i non garantiti soffrono una vita lavorativa precaria”.
Il Mario nazionale si rifà in questo passaggio ad un modello del mercato del lavoro ormai abbandonato dall’accademia di qualsiasi estrazione: il cosiddetto modello insider-outsider. In questa rappresentazione, gli insider (i lavoratori maschi e anziani e, badate bene, sindacalizzati) impedirebbero ai salari di scendere ad un livello tale da occupare anche gli outsider (i giovani e le donne).
Questi ultimi, dunque, sarebbero disoccupati involontari poiché disposti a lavorare al salario vigente, o addirittura inferiore, ma penalizzati dalla rendita di posizione dei lavoratori garantiti. Come abbiamo avuto modo di argomentare, le faglie teoriche ed empiriche di questa rappresentazione e di altre schematizzazioni del mercato del lavoro sono ormai conclamate, mentre la ricerca ha dimostrato che le politiche di flessibilità non sono associate ad aumenti dell’occupazione.
Viene peraltro da chiedersi, data l’insistenza sul tema, se l’Italia abbia davvero un mercato duale tra i più accentuati in Europa, dove i diritti dei “garantiti” non sarebbero stati toccati e dove, per questo motivo, gli outsider non verrebbero assunti. Ma soprattutto la domanda ancora più importante è: qual è la causa della condizione di grave precarietà lavorativa di una quota importante di giovani e di donne?
Per rispondere a queste domande possiamo fare ricorso ad un indicatore fornito dall’OCSE, l’Employment Protection Legislation index, che ci permette di valutare il grado di tutela di cui godono i lavoratori e le lavoratrici in ogni Paese. A sua volta, questo indicatore è composto da due sotto indicatori riferiti alla libertà di licenziamento dei lavoratori con contratti regolari (gli insider, i tutelati) e alla libertà di stipulare contratti a termine (quindi la necessità di motivare questa scelta, o se le agenzie interinali siano legali o meno o ancora, il numero di rinnovi concesso).
Si tratta proprio dei due pilastri della flessicurezza: flessibilità in uscita e flessibilità in entrata. L’indicatore ha un valore massimo pari a 6 che indica massima tutela (e quindi alta rigidità del mercato del lavoro) a 1, che si riferisce al caso di massima flessibilità.
Ebbene, innanzitutto questo indicatore ci dice che l’Italia è stata campione di flessibilità in Europa. In Italia l’EPL si è ridotto tra il 1992 e il 2018 del 47%, più della Grecia (-40%), della Spagna (-38%) e della Germania (-31%). Inoltre, è facile anche verificare come in tutta Europa la flessibilità si sia fatta soprattutto sulle spalle dei precari, che abbia coinvolto cioè, soprattutto i contratti a tempo determinato che sono stati resi via via più agevoli.
Per quanto riguarda però la dualità del mercato del lavoro, un modo immediato per valutarla è confrontare i due sotto indicatori dell’EPL, quello riferito ai contratti regolari e quello riferito ai contratti a tempo determinato. Ebbene, da questo rapporto emerge che l’Italia non ha affatto il mercato più duale di Europa.
Nell’ultimo decennio il rapporto è pari a circa 1,5: le tutele dei garantiti, si potrebbe dire, sono 1,5 volte superiori a quelle dei precari. Un valore in diminuzione dopo che la Riforma Fornero e il Jobs Act hanno sdoganato la libertà di licenziamento, senza comunque risparmiare i precari. Ma, soprattutto, questo stesso valore in Germania è superiore a 2,3. Cosa dire dunque del modello tedesco, che ha ispirato le riforme del mercato del lavoro del continente e si configura come il mercato più duale del continente?
La condizione di giovani e donne, vessati dalla precarietà, è drammatica, ma la responsabilità non è certo dei sempre meno lavoratori che riescono ad accedere ad occupazioni con un livello decente di tutele. Il problema sono, invece, proprio le riforme del mercato del lavoro, che hanno progressivamente eroso queste tutele, rendendo sempre più facile la stipula di contratti a tempo determinato, estendendone la possibilità di rinnovo e dando così una spinta alla diffusione della precarietà.
Abbiamo dunque un suggerimento per il Governo e per Mario Draghi. C’è stato un tempo in cui, sempre facendo ricorso all’indicatore dell’OCSE, il nostro mercato del lavoro, con tassi di disoccupazione analoghi a quelli odierni, era molto meno duale. Parliamo del periodo storico che ha preceduto la stagione delle liberalizzazioni del mercato del lavoro (fino alla fine degli anni ‘80 o ai primi anni ‘90), quando il rapporto sopracitato tra libertà di licenziamento e tutele dei contratti atipici era pari in Italia a 0.6.
Volendo usare le parole del nemico, potremmo dire che era proprio la scarsissima possibilità di stipulare contratti precari a non creare un problema di dualismo. Non era certo risolta però la questione giovanile o l’uguaglianza di genere nella partecipazione al mercato del lavoro e nelle retribuzioni, le cui cause sono più profonde e datate.
La soluzione di questi problemi non passa di certo per il ridimensionamento generale dei diritti del lavoro, come vorrebbero farci credere, ma al contrario per un’estensione delle tutele per tutti i lavoratori e le lavoratrici. Più diritti e più sicurezza per tutti e insieme una politica di forte stimolo e rilancio dell’occupazione tramite una crescita della domanda aggregata trainata dall’intervento pubblico nell’economia.
Una catena virtuosa che rafforza lavoratori e dinamica economica insieme spezzando il circolo vizioso in cui ormai viviamo da decenni dove, in ossequio ai trattati europei e al pensiero liberista, lavoro precario e bassi salari sono insieme la causa e l’effetto della lunga stagnazione e recessione economica che sta divorando l’intera società.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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