Scritto ed integralmente concordato dal premier Draghi con l’ Unione Europea, il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza, rappresentato come il piano economico più imponente dal dopo guerra ad oggi, è stato inviato il 29 aprile a Bruxelles.
Totalmente bypassato il Parlamento (che comunque lo ha approvato a scatola chiusa e praticamente all’unanimità) e con tutto il quadro politico istituzionale impegnato nel frattempo ad accapigliarsi sullo spostamento dell’orario del coprifuoco dalle 22 alle 23…
Il piano si compone di sei missioni espressamente indicate da Bruxelles (digitalizzazione, transizione verde, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute), all’interno delle quali si sviluppano 16 componenti, ed è accompagnato da 4 riforme di contesto (giustizia, PA, semplificazioni e concorrenza) a cui si aggiunge la riforma fiscale (certamente non in chiave redistributiva) della quale si comincerà a discutere a giugno.
Le cifre e la logica del Piano
Senza troppo soffermarci sulle cifre, ma giusto per avere la dimensione reale e non propagandistica della “potenza di fuoco” messa in campo: si tratta di circa 200 miliardi (dei quali circa 70 in sovvenzioni e circa 122 in prestiti da restituire) stanziati per il nostro paese e da spalmare in 6 anni, a cui vanno aggiunti circa 13,5 miliardi di fondi europei nell’ambito del programma React-Eu.
Complessivamente queste risorse per 6 anni costituiscono una cifra inferiore rispetto agli scostamenti di bilancio già previsti dal governo dallo scoppio della pandemia ad oggi e, tra l’altro, rivelatisi assolutamente insufficienti.
Per avere poi una dimensione più generale, è bene ricordare che i 750 miliardi previsti su scala europea (dei quali 390 in trasferimenti e 360 in prestiti) costituiscono una cifra sensibilmente inferiore rispetto ai 4.000 miliardi stanziati dagli USA (dei quali 2000 miliardi in infrastrutture e 1900 come forme di sostegno ai redditi in crisi per il Covid) che, comunque, contano una popolazione minore (320 milioni) rispetto all’intera popolazione dell’Unione Europea (450 milioni).
Ma è sul piano della logica che l’operazione contenuta nel PNRR mostra il suo vero volto: si tratta di soldi (decisamente pochi rispetto alla dimensione della crisi e la maggior parte da restituire) che, come al solito verranno elargiti alle imprese, in un’ottica selettiva, ovvero prevalentemente a un certo tipo di imprese (agganciate alla filiera industriale europea) riproponendo ed esasperando, quindi, quel medesimo modello che in questi mesi di emergenza sanitaria, economica e sociale ha mostrato tutta la sua fragilità.
A tal proposito, l’ultimo rapporto del Gruppo dei 30 (G30), un think tank fondato nel 1978 dalla Rockfeller Foundation costituito dai 30 banchieri più potenti del mondo, e del cui comitato direttivo all’epoca della pubblicazione (2020) faceva parte Draghi, dal titolo “Rivitalizzare e ristrutturare le aziende dopo il Covid. Progettare l’intervento delle politiche pubbliche”, è decisamente illuminante per la comprensione del progetto riorganizzativo: limitare il sostegno pubblico alle imprese sostenibili nell’economia post Covid utilizzando la strategia della “distruzione creatrice” senza disperdere risorse nei confronti di settori condannati all’espulsione dal mercato (le cosiddette “aziende zombie”).
Quindi, l’interventismo dello Stato non è diretto a creare occupazione buona e di qualità, investendo seriamente nella sanità e nella scuola, ma è finalizzato a favorire quei processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali che consentirebbero solo alle imprese capaci di competere sui mercati internazionali di restare a galla.
Il tutto condito dalla retorica sulla digitalizzazione e la transizione ecologica.
Le cosiddette riforme di contesto e abilitanti
Chiariamo subito che mentre alcune delle riforme strutturali sono espressamente menzionate altre, se pur non citate, sono contenute in qualche sibillina espressione in perfetto stile tecnocratese. Decriptando quel linguaggio e tramutandolo in realtà, si tratta delle Raccomandazioni paese inviate ad ogni Stato membro dall’Ue, tra le quali in prima linea c’è la riforma delle pensioni non a caso tornata al centro del dibattito politico.
Insomma, quelle condizionalità alla cui osservanza è subordinata l’erogazione delle risorse.
Invece, le riforme espressamente menzionate (PA, Giustizia, Semplificazioni, Promozione della concorrenza) costituiscono il cuore del progetto, in quanto dovranno determinare l’ambiente normativo ed economico idoneo per attuare il Piano e quindi ci suggeriscono la chiave di lettura per comprendere appieno l’operazione che si sta mettendo in campo: in nome della competitività, liberare la burocrazia affinché la libertà di impresa sia in grado di dispiegarsi senza più alcuna resistenza e ridisegnare in tale ottica la funzione dello Stato.
Senza voler trascurare l’irrisorietà delle risorse destinate per esempio al potenziamento degli organici e alla riqualificazione delle strutture scolastiche o, addirittura, la mancanza di una voce specifica per il potenziamento del personale sanitario, sono quindi i piani di riforma, più dell’allocazione delle singole poste, a restituirci la visione complessiva della riorganizzazione produttiva che si vuole attuare.
Ne è dimostrazione il fatto che le riforme cosiddette orizzontali o di contesto (Pa e sistema giudiziario) nella stesura del testo “sono dirette a migliorare l’equità, l’efficienza e la competitività”, mentre le cosiddette riforme abilitanti (semplificazioni e promozione della concorrenza) sono “funzionali a garantire l’attuazione del piano e in generale a rimuovere gli ostacoli amministrativi, regolatori e procedurali che condizionano le attività economiche e la qualità dei servizi erogati”.
La Pubblica Amministrazione al servizio del mercato
In questo quadro assume pertanto valenza strategica la riforma della PA, la quale, in un’ottica sinergica, interagisce con la riforma sulle semplificazioni (ed anche con quella relativa alla promozione della concorrenza) e disegna una PA orientata non certo ad erogare welfare universale e garantire diritti a tutta la cittadinanza, ma a modellare lo Stato in funzione del riassetto produttivo, schierando definitivamente il lavoro pubblico e i lavoratori a disposizione del modello impresa.
Il programma di riforma della PA indicato nel PNRR si muove su 4 assi strategici: accesso, buona amministrazione, competenza e digitalizzazione.
Tralasciando la digitalizzazione, gli altri strumenti individuati da un lato confermano ed esasperano il ruolo ancillare dello Stato rispetto al mercato, dall’altro elevano il modello impresa a forma di organizzazione delle PA: con il malcelato retropensiero secondo il quale la mancata efficienza del settore pubblico non sarebbe imputabile a decenni di inesorabile disinvestimento nella macchina pubblica, ma ai singoli lavoratori rei di non avere competenze all’altezza delle sfide che la competizione pone (o meglio impone).
E così per quanto riguarda l’asse strategico relativo alle forme di reclutamento (accesso), il sacrosanto ricambio generazionale è declinato in chiave elitaria e classista puntando a “valorizzare le competenze”. Tradotto: semplificare i concorsi attraverso la sostituzione delle prove preselettive con la valutazione dei titoli ai fini dell’accesso alle altre prove concorsuali (sembrerebbe con riferimento ai profili più qualificati, ma dovremo attendere il completamento dell’iter normativo in materia di riforma dei concorsi pubblici) .
Questa logica di rialzo delle competenze favorirà la formazione post laurea e precluderà l’accesso ai posti di lavoro pubblici da parte di chi non ha avuto il tempo di accumulare titoli, o non dispone dei mezzi economici per conseguirli.
A completare il quadro, nel PNRR si fa riferimento a modalità di reclutamento che superino l’ordinaria forma concorsuale e prevedano percorsi ad hoc rivolti ad alti profili ed ai profili specialistici, attingendo direttamente dall’università, da centri di alta formazione, o da ordini professionali.
Di contro, è allo studio del Governo nel settore pubblico una ipotesi di pensionamenti anticipati (con inevitabili penalizzazioni) rivolto a dipendenti non più in linea con il nuovo modello di amministrazione che si vuole costruire. Insomma la declinazione in ambito pubblico del trattamento che si vorrebbe riservare alla cd aziende zombie.
Per quanto concerne il secondo asse strategico, (la buona amministrazione) il ritornello sulla sburocratizzazione approda alla semplificazione e alla riduzione dei tempi per la gestione delle procedure, intrecciandosi, quindi, con le riforme in materia di semplificazione e promozione della concorrenza.
E qui i riferimenti contenuti nel PNRR lasciano pochi margini a dubbi ed interpretazioni in merito alla direzione che si vorrebbe imprimere all’attività delle Pubbliche Amministrazioni
In materia di semplificazione si punta ad intervenire sulla disciplina degli appalti pubblici, semplificando le verifiche antimafia, i protocolli di legalità e limitando la responsabilità per danno erariale ai soli comportamenti dolosi; in materia ambientale semplificando le disposizioni relative alla valutazione di impatto ambientale e sottoponendo le opere previste dal PNRR ad una specifica VIA statale al fine di assicurare la velocizzazione della tempistica (alla faccia della transizione green!).
Sempre nell’ottica della semplificazione, particolarmente illuminante è un paragrafo dal titolo “Abrogazione e revisione delle norme che alimentano la corruzione”, il cui contenuto va nella direzione esattamente opposta a quanto indicato nel titolo: le ispezioni e i controlli pubblici vengono additati come occasioni di corruzione, gli obblighi di trasparenza divengono oneri ed adempimenti troppo pesanti e si punta ad intervenire persino su quelle norme che stabiliscono incompatibilità tra incarichi nelle PA che comportano poteri di vigilanza su attività svolte da enti di diritto privato e il mantenimento di incarichi presso i medesimi enti oggetti del controllo.
Infine, per quanto riguarda la riforma in materia di concorrenza si punta a rimuovere alcuni ostacoli al libero svolgimento delle attività economiche in materia di concessioni (persino quelle autostradali, perché nemmeno le stragi conducono a più miti consigli) e di servizi pubblici locali con particolare riferimento alle società in house alle quali ricorrere come extrema ratio e in presenza di una specifica motivazione delle PA che dia conto del mancato ricorso al mercato.
La buona amministrazione e la sburocratizzazione, quindi, si risolvono in una furia semplificatoria diretta a deregolamentare e ad eliminare ogni tipo di condizionamento nei confronti dello svolgimento delle attività economiche.
Infine, per quanto concerne il terzo asse strategico (le competenze) i percorsi di carriera immaginati nel PNRR per il settore pubblico si collocano perfettamente nel solco di quello strumento falso, divisivo ed arbitrario (la “meritocrazia”), che trasforma il diritto soggettivo ad avanzamenti economici e professionali in una competizione tra lavoratori.
In particolare, per quanto riguarda i percorsi manageriali si fa espressamente riferimento a modelli di mobilità innovativi con accesso nelle strutture pubbliche di personale che lavora nel privato più qualificato o proveniente da organizzazioni internazionali o soggetti pubblici e privati all’estero.
Se il PNRR darà la scossa auspicata dal governo in termini di crescita è più che lecito dubitarne.
Ma nel frattempo occorrerà lavorare per costruire quel livello di reazione sociale necessario per non subordinare ulteriormente gli interessi del mondo del lavoro alle élite nazionali e trans nazionali.
L’USB è al lavoro già da tempo ed un primo appuntamento nazionale, preceduto dallo sciopero della sanità del 21 maggio, sarà rappresentato dalla manifestazione nazionale del 22 maggio in occasione del G20 sulla sanità, durante la quale grideremo tutta la nostra rabbia per la gestione della pandemia e in generale per gli effetti economici e sociali che le politiche del governo Draghi stanno amplificando.
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