Larry Elliott, editor della sezione economia del Guardian, spiega il Brexit come qui lo abbiamo sempre inteso: un rifiuto della globalizzazione, di un modello economico imposto (perché presentato come unico possibile, inevitabile) dalle élite globali negli ultimi tre decenni; un rifiuto espresso prevalentemente dalla classe lavoratrice. Ma questo modello non è senza alternative, dice Elliott: è il frutto di precise scelte politiche prese in passato. Ora stanno crescendo le proteste, e se questo modello non sarà cambiato dai partiti “mainstream”, presto ci penseranno i partiti “populisti”.
di Larry Elliott, 26 giugno 2016
L’era della globalizzazione è iniziata nel momento in cui è caduto il muro di Berlino. Da quel giorno del 1989, la tendenza che già era diventata evidente alla fine degli anni ’70 e durante gli anni ’80 ha improvvisamente accelerato: era il libero movimento dei capitali, delle persone e delle merci, l’economia del trickle-down, la diminuzione del ruolo degli stati nazionali, la convinzione che le forze del mercato, ora liberate dalle loro catene, sarebbero state inarrestabili.
Negli anni ci sono stati dei contraccolpi contro la globalizzazione. Le violente proteste a Seattle durante il vertice del World Trade Organisation, nel dicembre 1999, sono state il primo segnale che non tutti vedevano positivamente questo spostamento verso una libertà illimitata. Una conclusione a cui si è giunti dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington è stata che non solo il commercio e i mercati finanziari erano diventati globali. Sette anni dopo, il crollo della banca d’investimenti Lehman Brothers ha messo fine all’idea che la miglior cosa che un governo possa fare di fronte al potere del capitale globale sia quello di farsi da parte e lasciare che le banche supervisionino se stesse.
Ed ecco che ora la Gran Bretagna rifiuta l’Unione Europea. Si tratta di qualcosa di più di una protesta contro le opportunità di carriera che non arrivano mai o contro la mancata costruzione di case a prezzi accessibili. Si tratta di una protesta contro il modello economico che è stato messo in atto negli ultimi tre decenni.
Sia chiaro, non tutti i problemi della Gran Bretagna sono la conseguenza dell’appartenenza all’Unione Europea. Non è colpa della Commissione Europea se la produttività è così debole o se i treni non arrivano in orario. I problemi ben radicati che c’erano quando giovedì la Gran Bretagna stava votando al referendum restano lì anche dopo il risultato col quale ci siamo svegliato venerdì mattina.
L’evidenza di come sia sbilanciata l’economia si vede dagli ultimi dati sulle partite correnti della Gran Bretagna, che saranno pubblicati alla fine di questa settimana. I dati mostrano se i flussi di reddito dal commercio e dagli investimenti sono in verde o in rosso. Il dato dell’ultimo trimestre del 2015 mostrava che la Gran Bretagna è in deficit per il 7 percento del PIL.
Da un altro punto di vista, però, l’Unione Europea è colpevole. Nel nuovo mondo luminoso creato quando gli ex paesi comunisti sono stati integrati nel modello globale, l’Europa doveva diventare abbastanza grande e potente da riuscire a proteggere i propri cittadini dai peggiori eccessi del mercato. Erano gli stati nazionali, prima, a garantire la piena occupazione e il welfare. I controlli che essi imponevano sui movimenti dei capitali e delle persone permettevano ai sindacati di negoziare salari più alti senza la minaccia che i posti di lavoro venissero delocalizzati, o che la manodopera a basso costo venisse importata nel paese.
Nell’era della globalizzazione, l’idea è stata che un’Europa più integrata avrebbe funzionato come un argine di difesa che gli stati nazionali non riuscivano più a garantire. La Gran Bretagna, la Francia, la Germania o l’Italia non sarebbero più state capaci di resistere individualmente al potere del capitale internazionale, ma l’Unione Europea potenzialmente avrebbe potuto. Quindi la direzione da seguire sarebbe stata chiara. Da un mercato unico a una moneta unica, a un sistema bancario unico, a un bilancio unico e alla fine a un’unica entità politica.
Il sogno è finito. Come ha detto Charles Grant, direttore del Centre for European Reform: “Il Brexit è un momento cruciale della storia europea, e da ora in avanti la storia sarà quella di una disintegrazione, non di una integrazione.”
Il motivo è evidente. L’Europa non è riuscita ad adempiere il ruolo storico che le era stato assegnato. I posti di lavoro, gli standard di vita, lo stato sociale, venivano tutti protetti meglio durante l’apogeo degli stati nazionali, negli anni ’50 e ’60, di quanto non lo siano stati durante l’era della globalizzazione. La disoccupazione in eurozona è oltre il 10 percento. L’economia italiana oggi è a stento superiore a quanto fosse quando l’euro è stato creato [nel 1999]. L’economia greca si è contratta di quasi un terzo. L’austerità ha eroso il welfare. Le protezioni del mercato del lavoro sono state cancellate.
È inevitabile che ci sia stato un contraccolpo, che si è manifestato nell’ascesa dei partiti populisti di sinistra e di destra. Un numero sempre crescente di elettori ritiene che il sistema attuale non abbia nulla da offrire. Ritengono che la globalizzazione abbia dato beneficio a una piccola élite privilegiata, non a loro. Ritengono sia ingiusto che il prezzo del fallimento dei banchieri sia stato fatto pagare a loro. Rivogliono indietro la sicurezza fornita dagli stati nazionali, anche se ciò significa mettere un limite alle libertà fondamentali che stanno alla base della globalizzazione, tra cui la libera circolazione delle persone.
Tutto ciò ha creato grosse difficoltà ai partiti mainstream in tutta Europa, ma specialmente a quelli del centro-sinistra. Questi sono ben disposti all’idea di frenare i movimenti dei capitali, ad esempio con una tassa sulle transazioni finanziarie, e non hanno problemi a imporre dazi per evitare il dumping cinese. Sono a disagio, però, con l’idea di dover limitare anche il libero spostamento delle persone.
Il rischio è che, se i partiti mainstream non rispondono alle richieste dei loro elettori tradizionali, verranno rimpiazzati dai partiti populisti più propensi a rispondere. Il partito socialista francese ha perso gran parte del suo elettorato della classe lavoratrice, che si è rivolto alla sinistra e alla destra radicale, e in Gran Bretagna c’è il rischio che succeda la stessa cosa al partito laburista, dove l’approccio “laissez-faire” di Jeremy Corbyn sull’immigrazione si scontra con l’idea di molti elettori nel nord dell’Inghilterra, che votarono per Ed Miliband nelle elezioni generali del 2015 ma che hanno preferito il Brexit la scorsa settimana.
C’è chi dice che la globalizzazione è come il tempo: una cosa di cui ti puoi lamentare ma che non puoi cambiare. Questo paragone è falso. L’economia del mercato globale è stata creata da un ben preciso insieme di decisioni politiche prese nel passato, e potrà essere ridefinita dalle decisioni politiche prese in futuro.
Torsten Bell, direttore della Resolution Foundation, ha analizzato l’insieme dei voti espressi al referendum, e ha trovato che le parti della Gran Bretagna nelle quali c’è stato il maggior sostegno al Brexit sono quelle che sono rimaste nella povertà più a lungo. Il risultato è stato influenzato da “profonde disuguaglianze radicate nella geografia nazionale“, ha detto.
Nello scorso quarto di secolo si è sviluppato un pensiero piuttosto pigro sulla globalizzazione. Come nota Bell, è venuto il tempo di ripensare quell’assunzione secondo la quale “un’economia flessibile e globalizzata può generare una prosperità ampiamente suddivisa“.
È ben evidente che un gran numero di persone in tutta Europa non ritiene che un’economia flessibile e globalizzata, per loro, stia funzionando. Una reazione al Brexit da parte del resto d’Europa è quella di voler assumere una linea dura verso la Gran Bretagna, per mostrare agli altri paesi quali siano le conseguenze per chi dissente. Ciò non farebbe altro che peggiorare la situazione. Gli elettori hanno legittimamente il diritto di lamentarsi per un sistema economico che per loro è stato fallimentare. Punire la Gran Bretagna non salverà l’Europa. Non farà altro che accelerarne la dissoluzione.
traduzion di Henry Tougha per http://vocidallestero.it
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