Dalla fine della Guerra Fredda, gli eventi hanno dimostrato che il crollo del blocco dell’Europa orientale non ha contribuito a ridurre i rischi di guerra su larga scala, ma piuttosto la stessa diffusione della consapevolezza dei pericoli immensi legati alle tecnologie
delle armi nucleari, continua ad apparire come strumento indispensabile con funzione dissuasiva.
In tutto questo, la continua ricerca geostrategica della possibilità che gli USA lancino, con i propri sistemi bellici, un primo attacco nucleare impunemente e senza risposta, solleva serie preoccupazioni sulle sorti degli equilibri globali.
L’aspirazione degli USA e dei suoi alleati NATO è controllare un’area di fondamentale valore strategico, ai confini con la Russia, soprattutto per contenere l’influenza dei paesi emergenti, rappresentati da Cina, Russia, India e Iran, oltre che per controllare i flussi di investimenti diretti all’estero (IDE).
In tali scenari di guerra sono comparse armi già esistenti, ma tecnologicamente rafforzate, utilizzate per il controllo di territori di vaste proporzioni.
Pertanto, il campo militare, l’economia di guerra come strumento di disturbo soprattutto nelle crisi economiche sistemiche per adempiere alla sua funzione dissuadente e di espansione, rappresenta allo stesso tempo il volto peggiore di un intero sistema produttivo ed economico e il terreno in cui si misura la controversa questione dell’applicazione della scienza e della tecnologia al modello produttivo e alla sua logica fondamentale.
La conquista di nuovi mercati, la distruzione dei mercati concorrenti, gli obiettivi egemonici nel contesto internazionale, il keynesismo militare nel conflitto interimperialista, sono l’elemento chiave su cui si è basato un processo di convergenza tra le ragioni fondamentali del modello capitalista e quelli di una scienza largamente subordinata; che nella sua (finta) neutralità ha una posizione
pienamente partigiana, coincidente con le strutture economiche e di potere prevalenti.
Ovviamente in questo contesto non è realistico sostenere la presunta neutralità della scienza.
In realtà la scienza e la tecnologia, che celebriamo spesso quali potenziali strumenti di socialità e di riscatto universale per tutta l’umanità, per far fronte alle acute contraddizioni che si presentano loro (la questione del conflitto capitale- natura, i pericoli della guerra su vasta scala, il diritto universale alla salute), diventano un mezzo per l’esasperato dilatarsi di queste contraddizioni e non una
soluzione.
Inoltre, la storia mostra che il primato del mercato capitalista e delle sue leggi può essere interrotto solo attraverso la pianificazione dello sviluppo e, quindi, anche attraverso l’applicazione della scienza e della tecnologia, come unico modo per superare l’irriducibile contraddizione insita nel modello capitalista: quella che
esiste tra capitale e lavoro.
Infatti, la scienza, pur essendo figlia e prodotto del proprio tempo e quindi delle forme sociali di cui è composta la storia, non ha uno statuto ontologico di estraneità alle reali dinamiche sociali e produttive, ma ne è una componente fondamentale.
È proprio l’uso concreto della scienza, la sua trasformazione in parte di un tutto, che ne fa uno strumento non neutrale né impermeabile alle logiche fondamentali di un sistema politico, economico, finanziario o produttivo.
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