In un mercato capitalista sviluppato, alcuni settori di mercato (e in prospettiva l’intero mercato) entrano in crisi di sovrapproduzione nel momento in cui la tecnologia utilizzata, la forza lavoro operante e l’organizzazione del processo lavorativo consentono la produzione di beni in quantità così alte da non poter essere assorbite dal mercato (a meno che non si propongano a prezzi così bassi da non renderne possibile la valorizzazione).
Può esservi poi un eccesso di offerta a fronte di una domanda impoverita o, almeno, diminuita. Dovrebbe essere chiaro che ciò non significa che tali beni non siano ricercati o desiderati da qualche consumatore – infatti le crisi di sovrapproduzione spesso coesistono con ampi spazi di diffusa povertà nei paesi capitalistici avanzati e in tutto il mondo – ma indica solo che questi beni non sono vendibili se non a prezzi che non consentirebbero la valorizzazione o la chiusura positiva del ciclo di valutazione del capitale investito nella loro produzione. Cioè il capitale investito per produrli viene bruciato, perso, non valorizzato; e cioè non solo non torna con la crescita, ma non ritorna affatto. Non si tratta quindi di quantità, di beni prodotti in eccesso rispetto ai reali bisogni della popolazione; è un problema di beni che non possono essere venduti “al loro valore”. Per questo motivo, prodotti, tecniche, linee di prodotto verranno adottati o scartati sulla base solo della valutazione. Con ciò il singolo lavoratore e l’operaio in genere sono utilizzati al fine di accrescere la ricchezza e la valorizzazione sociale, senza le quali la produzione perde il proprio obiettivo fondamentale.
Si tratta di un modello sempre più incentrato sulla ricerca di forme flessibili di accumulazione; cioè su criteri di flessibilità produttiva, precarietà del lavoro e del vivere sociale, basati sulla valorizzazione di nuovi modelli comunicativi capaci di imporre nel proprio territorio il dogma culturale del mercato, del profitto, del vivere secondo i principi dell’impresa.
È necessario collocare l’economia attuale nel ciclo storico che viviamo. Questo ciclo è iniziato negli anni ’70 con una grande crisi capitalistica di accumulazione piuttosto che di sovrapproduzione, ancora irrisolta, caratterizzata dal generare grandi trasformazioni strutturali, in particolare con una diversa distribuzione diffusa spazialmente e settorialmente della povertà e della ricchezza.
Attualmente c’è un aumento della povertà nei paesi ricchi e un aumento della ricchezza in alcuni settori della popolazione nei paesi poveri. Se la concorrenza globale è una legge del sistema, è anche una legge di concentrazione e accentramento del capitale che genera l’evoluzione quotidiana del capitalismo. Allo stesso modo, l’attuale processo di accumulazione flessibile significa maggiore concentrazione e centralizzazione. La concentrazione implica che, attraverso il processo di accumulazione, i capitali individuali diventino più grandi, più potenti.
Tutto questo significa che il centro dell’analisi deve essere sempre la sfera produttiva (il processo produttivo, come unione del processo di lavoro e valorizzazione, e il processo di circolazione) individuando, nel rapporto capitale-lavoro, la dialettica che fonda il modo di produzione capitalistica, che è anche la contraddizione immanente e fondamentale del modo-movimento stesso, da cui derivano – o che influenza – le altre contraddizioni interne alla società capitalistica.
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