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Zitta zitta, la crisi lavora sottotraccia. Non se parlava più, perché la pandemia ha coperto tutto, anche gli squilibri sistemici, sotto la coltre dell’emergenza occasionale.

Si è potuto pensare – e dire, su media che si autopresentano come “autorevoli” – che il sistema occidentale funzionava benissimo, peccato per questa “influenza maligna” che è venuta a rompere le scatole. Però “ci vacciniamo presto” – oggettivamente si sono trovati velocemente dei vaccini – “e tutto tornerà come prima” (“andrà tutto bene”).

Solo che “prima” c’era una crisi che durava da almeno dieci anni…

Peggio. Tutto quello che era stato fatto per contenerla – i quantitative easing delle principali banche centrali, i “piloti automatici” che avrebbero dovuto sostituire la volatilità delle scelte politiche dei singoli Stati (sempre esposti al “problema” delle maggioranze variabili con le elezioni) – è diventato a sua volta un problema che aggrava la crisi.

Sarà un caso, ma di quella stagione Mario Draghi è stato uno dei principali protagonisti. La politica monetaria “non convenzionale” della Bce porta la sua firma, così come gli interessi negativi sui titoli di stato dei paesi “forti”.

Ed anche il “pilota automatico”, inserito ormai in tutti i trattati europei (dal Six Pack al Recovery Fund).

Poi arriva quell’intruso del Covid-19 che non si comporta come ci si attende: i vaccini lo depotenziano, ma l’”immunità di gregge” è impossibile; muta, svaria, aggira, costringe a prendere decisioni impreviste…

Il “pilota automatico” funziona se le condizioni in cui è stato pensato e disegnato restano identiche. Se invece le variabili impreviste aumentano, le soluzioni che “il pilota” propone sono semplicemente sbagliate. Magari di poco, inizialmente, ma si accumulano nel tempo, perché contribuiscono a creare altre variabili impreviste, a complicare il quadro e allontanarlo da quello immaginato.

Ogni “automatismo”, peraltro, è ripetitivo, prevedibile, dunque alla fine aggirabile. Non tanto dai singoli Stati europei, ormai ridotti al silenzio obbediente nella gestione dei conti pubblici, quanto dai “mercati finanziari”, sempre a caccia di sangue e occasioni facili.

E – ma guarda un po’ – proprio gli “automatismi” pensati per placarli ora sono l’occasione più semplice da sfruttare.

Torna l’inflazione – che l’”austerità” aveva preteso di eliminare per sempre -, si chiudono molti mercati per la produzione europea, e non sono sostituibili con la domanda interna perché i salari depressi erano stati la ragione del “successo mercantilista”.

Quando gli “automatismi” amplificano i problemi invece di risolverli bisognerebbe metter mano al ridisegno del “sistema”. Servirebbe una visione politica alta, una classe di statisti europei (quelli rivoluzionari nascono da un’altra parte…).

Ma proprio gli “automatismi” hanno progressivamente eliminato la necessità di una visione politica e di “creatori” di politica. Siamo circondati e governati da amministratori di condominio, passacarte attenti alla spesa e senza progetti di lungo periodo.

La “migliore” di quella stagione è stata Angela Merkel, considerata in patria rassicurante come una “brava massaia”, ricca di buon senso pratico e capace di assicurare sedici anni di stabilità galleggiando – mai risolvendoli – sui problemi, le contraddizioni, le ambizioni di personaggi ancora inferiori.

Come scrive Guido Salerno Aletta nel suo ultimo editoriale su TeleBorsa, “L’Occidente non riesce a riflettere sul proprio modello di sviluppo, aggrovigliato in una narrazione ormai inconcludente.

Il “pensiero unico” neoliberista, trionfante nell’ultimo trentennio, aveva abolito la necessità di pensare criticamente, di sviluppare visioni “eterodosse”, ripulito le cattedre universitarie dai “dubbiosi”, sostituendoli con econometristi in grado di calcolare qualsiasi cosa ma non di escogitare soluzioni adatte ai problemi non previsti.

Il sistema neoliberista ha incontrato un limite (sanitario, ambientale, climatico, ecc; fisico, insomma) ma non sa far altro che insistere, spingere avanti, ripetere. Ottusamente. Mario Draghi è l’esempio più vicino di questa empasse…

E’ una situazione storica davvero interessante, per chi saprà sviluppare una visione a questa altezza. Ma tenete lontani i patiti della “comunicazione”, perché l’epoca della “narrazione” che sostituisce la visione strategica è finita per sempre. Anche e soprattutto tra i comunisti.

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Le illusioni e la Paura

Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa

In Europa, ci sono frenate, accelerazioni e nuove frenate. Mentre le regole del Fiscal Compact sono state sospese per via delle condizioni macroeconomiche avverse, il MES viene riformato, ed ancora rinviato il completamento della Banking Union per un sistema generale di tutela dei depositi, abbiamo assistito al varo del NGUE, un piano straordinario focalizzato sugli interventi volti ad accelerare la transizione energetica, la sostenibilità ambientale, e la innovazione tecnologica in campo informatico, tenendo in gran conto la coesione territoriale e sociale.

Queste sono le speranze, forse illusioni: con il NGUE si cerca una via di uscita rispetto alla marginalizzazione economica e strategica di cui l’Europa soffre a livello globale ed alle tensioni manifestatesi con la elezione al Parlamento europeo di componenti sovraniste che hanno rimesso in discussione il processo iniziato con il Trattato di Maastricht, nel ’92, a valle della Riunificazione della Germania ed in vista della estensione ad Est, per accogliere i Paesi ex-comunisti.

C’è paura: i dibattiti sull’extra-debito derivato dagli “interventi pubblici pandemici”, magari da trasferire al MES, e quelli sulle nuove regole sui deficit ed i debiti pubblici dimostrano che la fine delle politiche non convenzionali della BCE, che ha proceduto da anni alla sistematica repressione finanziaria dei mercati portando i tassi di interesse a livelli nominali negativi, possono fare riesplodere le tensioni che caratterizzarono il biennio 2010-2012.

Dopo la crisi sanitaria, il debito italiano si è ingigantito: senza adeguate misure, un default provocato dalla speculazione potrebbe portare al collasso dell’euro. Anche se prima dell’Italia c’è la Grecia, poi ci segue la Francia: è tutto il sistema che va messo in sicurezza.

C’è un dubbio che nessuno può nascondere: la crescita europea che avrebbe dovuto essere innescata dal PNRR a partire da quest’anno potrebbe essere già stata compromessa dalla fiammata inflazionistica in corso, dalla crisi delle forniture energetiche e dalle tensioni geopolitiche nei Balcani.

Le stesse vicende americane, dopo la inattesa elezione di Donald Trump con lo slogan “Make America Great Again”, segnalano tensioni assai profonde e diffuse, di cui la Brexit è stato un altrettanto inaspettato epilogo.

L’Occidente non riesce a riflettere sul proprio modello di sviluppo, aggrovigliato in una narrazione ormai inconcludente.

Bisogna riprendere il filo della Storia: fino alla caduta del Muro di Berlino ed alla dissoluzione dell’URSS, l’Occidente aveva il monopolio delle relazioni economiche e finanziarie internazionali. Il sistema comunista, anche a livello internazionale, aveva una cooperazione guidata solo da meccanismi di pianificazione e di convenienza politica.

Il liberismo ha potuto dispiegarsi senza limiti: le politiche economiche occidentali si sono focalizzate sulla necessità di agevolare l’offerta di beni e servizi.

Solo le imprese capaci di competere sul mercato avrebbero creato in modo efficiente occupazione e reddito: per un verso, infatti, il sistema dei prezzi politici e la regolamentazione a tutela del lavoro distorcevano le convenienza nella allocazione delle risorse; dall’altro, il Welfare State con la previdenza sociale obbligatoria, la sanità e l’istruzione gratuite e garantite a tutti sottraevano opportunità alle imprese che avrebbe invece garantito una maggiore efficienza, con offerte e condizioni più vantaggiose.

Si è sviluppato un processo duplice. Da una parte, si proclamava lo Stato minimo, con lo slogan: “lo Stato dove è indispensabile, il Mercato ovunque sia possibile“; dall’altra parte, l’ingresso nella Unione europea dei Paesi ex comunisti e poi quella della Cina nel WTO hanno creato condizioni idonee ad una competizione basata sui differenziali fiscali, salariali, di protezione sociale ed ambientale.

Come già aveva constatato Ricardo ai suoi tempi, “il lavoro si sposta dove il salario è più basso“: niente di nuovo, dunque, salvo che alla visione pessimistica di costui continuava invece a prevalere quella di Smith che sosteneva invece la capacità degli animal spirits del mercato di assicurare le migliori condizioni per tutti.

Si è sviluppata sia all’interno della Unione europea che a livello globale una competizione mercantilistica, basata sulla capacità di produrre e vendere alle migliori condizioni possibili: le imprese hanno cominciato a chiudere i siti produttivi nei Paesi con alti costi fiscali e del lavoro per delocalizzare dove le condizioni fossero più convenienti.

Il tasso di crescita dei Paesi ha cominciato a diversificarsi: rallentavano dove c’erano i maggiori costi del lavoro e di protezione sociale; acceleravano dove erano inferiori.

Il fattore di crisi è stato determinato dall’orientamento all’export di questo processo di nuova industrializzazione: la produzione nei Paesi a più basso costo del lavoro, con i più bassi oneri fiscali e previdenziali e con le minori protezioni ambientali, è stata destinata a soddisfare la domanda dei consumatori dei Paesi a più alto reddito e con il più alto costo del lavoro.

Mentre all’inizio i consumatori occidentali beneficiavano del minor prezzo delle merci importate, un po’ alla volta lo svuotamento della capacità produttiva e reddituale ha messo in crisi la narrazione.

Il riequilibrio commerciale richiesto da Trump non si è realizzato e nuova la strategia “Built Back Better” che è stata lanciata dalla Amministrazione Biden è ancora tutta da definire. L’America è in mezzo al guado, ma soprattutto di fronte ad un keynesismo di risulta, come quello sotteso dalla NGUE.

Sul versante della politica monetaria, il sistema americano aumenterà presto i tassi di interesse avendo ridotto la disoccupazione ad un livello teoricamente ottimale, ma senza aver minimamente ricostruito il tessuto produttivo industriale e manifatturiero, come dimostra il disavanzo commerciale cresciuto a nuovi livelli record.

In Europa, la BCE è estremamente cauta, silente: un aumento dei tassi di interesse non solo schiaccerebbe i bilanci pubblici, lasciati allo sbando, ma devasterebbe i conti delle imprese colpite dalla crisi sanitaria ed ora dai prezzi crescenti dei prodotti energetici e delle materie prime importate.

La narrazione caramellosa del G20 di Roma e del Cop-26 è già stata cancellata.

Il mercato finanziario si sta vendicando dei troppi anni di repressione finanziaria che ha subito da parte delle Banche centrali: non gli basta l’esca degli investimenti nella Green Economy ed il trading sui Green Bond: vorace, ha una fame smisurata.

Questa è la paura vera: ad azzannare, non solo l’Italia, la speculazione ci mette un attimo.

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