La crisi ha accentuato l’emergere di contraddizioni tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea (UE), cioè lo scontro di diversi poli imperialisti, rivelando i diversi interessi che sono esistiti fino ad ora. Tuttavia, gli ultimi eventi della guerra in corso tra Russia e Ucraina sembrano smentire la visione teorica di un confronto che coinvolge solo i poli dell’Europa e degli Stati Uniti.
Occorre, insomma, analizzare le complesse fratture create dalla perdita dell’egemonia statunitense, in ambiti poco considerati da un marxismo che ha spesso peccato di eurocentrismo. Le posizioni che coincidono con l’antimperialismo e l’antiamericanismo sono già ampiamente superate da oltre trent’anni di evoluzione storica dei metodi di applicazione del capitalismo.
A partire dagli anni ’80, la sinistra politica e culturale occidentale iniziò a usare il termine dispregiativo “terzo mondo” per rifiutare la teoria della dipendenza e le categorie di sviluppo irregolare e sottosviluppo sviluppate da autori come Paul Baran, Samir Amin, Gunder Frank, Hosea Jaffe e Giovanni Arrighi.
Questo pensiero era legato alle teorie che, da Rosa Luxemburg a Nancy Fraser, mantengono la necessaria presenza di fattori esogeni, compresi quelli legati alle periferie, nel processo economico (economie non capitaliste del Terzo Mondo) per consentire una continua alimentazione dell’accumulazione espansa.
Samir Amin nel suo lavoro ha mostrato come le periferie trasformate in centri industriali non abbiano cessato di essere periferiche e che, pur essendo integrate nel sistema capitalista, continuano (con importanti eccezioni come la Cina) a restare incastonate nel sottosviluppo.
Questo perché Stati Uniti, Europa e Giappone beneficiano del potere dei “cinque monopoli”: dominio e controllo esclusivo sui flussi finanziari, tecnologie avanzate, mass media, risorse naturali strategiche e mezzi di comunicazione, distruzione massiccia.
Questi monopoli garantiscono i detentori di reddito passivo mentre collaborano con altri paesi come “subappaltatori”. In breve, estraggono un tributo coloniale dal resto del mondo e lo distribuiscono a favore di ingenti stanziamenti.
I sintomi di questa condizione sono la struttura monopolistica del commercio, il peso strategico degli investimenti esteri, l’industria subordinata alla metropoli, la concentrazione della proprietà fondiaria, l’ipertrofia del terziario e una polarizzazione tra centri e periferie ancora più radicale della quello attuale nei paesi occidentali.
Le sfide del socialismo nel 21° secolo — e questo è ciò che devono affrontare le rivoluzioni a Cuba e in Venezuela, cioè le relazioni internazionali tra i popoli e i governi progressisti, rivoluzionari e democratici, di fronte al capitalismo aggressivo, che lotta contro una crisi strutturale di più Trent’anni e con l’elaborazione di una strategia sistematica di guerra imperialista — sono complessi, soprattutto perché è necessario riprendere — dopo il 1989 — il percorso di costruzione di una società socialista in modo tale che i riferimenti internazionali scompaiano.
I governi di Cuba e Venezuela hanno messo in atto misure molto avanzate di natura economico-sociale, egualitaria e universale, oltre alle reali condizioni di sostenibilità della struttura economico-produttiva; ad esempio, con una forte copertura sociale universale che ha garantito e garantisce lavoro per tutti, alloggio per tutti, istruzione e salute gratuite per tutti, sport gratis per tutti.
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