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La crisi delle banche centrali di fronte a questa crisi

L’inflazione – insieme alla guerra – cambia il gioco dell’economia. Praticamente tutti i principali protagonisti – politici, economisti, sindacalisti, ecc – si sono girati verso la Bce chiedendo lumi, o meglio ancora interventi “whatever it takes” per bloccare ogni tipo di spirale (dei prezzi, degli spread, dei fallimenti, ecc).

Sono abituati così da quindici anni, bisogna capirli…

I più svegli hanno osservato che la Bce, promettendo di aumentare i tassi di interesse e dismettere gli acquisti di titoli di stato, ha reagito all’inflazione come se ci fosse un eccesso di domanda, invece che uno shock da offerta, su quasi tutte le materie prime.

Una critica radicale, se ci fosse qualcuno di quei protagonisti in grado di proporre soluzioni differenti…

Guido Salerno Aletta, in un editoriale per TeleBorsa – come ormai sapete, se si vuole capire qualcosa bisogna rivolgersi ai giornali specializzati, non certo a Repubblica o i Tg – ricostruisce la storia degli “errori” delle banche centrali, Bce su tutti, commessi negli ultimi 40 anni.

Errori, diciamolo subito, che derivano dall’affermarsi del pensiero unico liberista e monetarista, non certo da inadeguatezza tecnica delle massime autorità monetarie mondiali. Sono stati insomma errori necessari se si condivide quella visione e che ora la realtà sta sbattendo in faccia a chi l’ha condivisa e ripropone senza un attimo di riflessione.

Il punto di partenza, inevitabilmente, è stato nell’autonomizzazione della Banca centrale rispetto allo Stato, quindi dal ministero del Tesoro (comunque si chiami in ciascun paese).

Lo scopo: metter fine alla pratica – considerata “scorretta” – per cui lo Stato si finanziava di fatto stampando moneta e regolando i tassi di interesse, in un ambiente dove le banche private facevano business raccogliendo risparmi e facendo prestiti a famiglie ed imprese (non speculazione finanziaria, riservata ad altri soggetti).

Questo in Italia è avvenuto nel 1981 ad opera di Beniamino Andreatta – il “maestro” di Romano Prodi – quando il “mostruoso” debito pubblico nazionale era al… 60% del Pil. Ovvero ben dentro quello che sarebbe poi stato uno dei parametri di Maastricht!

Da allora in poi lo Stato doveva “finanziarsi sui mercati”, ricorrendo a prestiti del capitale privato. Prestiti che andavano ovviamente remunerati con tassi di interesse adeguati, aggravati da una dinamica inflazionistica molto spinta. Ricchezza vera che doveva andare dallo Stato ai privati, quindi dai contribuenti alla rendita finanziaria, non più una sorta di “partita di giro” dello Stato con se stesso e i risparmiatori (certamente sanzionabile dai “mercati”, il che comportava frequenti svalutazioni della moneta).

Da allora in poi si è cominciato a tagliare la spesa pubblica sociale, e quindi i diritti della popolazione meno ricca, senza peraltro mai fermare l’aumento del debito pubblico. Quel che veniva tagliato risultava infatti quasi sempre minore di quel che doveva essere annualmente pagato ai “prestatori” privati come interessi sul debito (le “cedole”).

Parallelamente diminuivano anche gli investimenti pubblici, per lo stesso motivo. Senza che venissero mai rimpiazzati da quelli privati (come la teoria neoliberista raccontava). E quindi rallentava moltissimo anche “la crescita”, ovvero l’aumento del prodotto interno lordo (Pil).

Essendo il rapporto debito/Pil una normale frazione matematica, ne è derivato per decenni che – restando quasi fermo il Pil e aumentando il debito – quella percentuale è andata crescendo sistematicamente fino all’oltre 150% attuale.

Neanche la nascita della Bce – banca centrale comune europea, che ha “sussunto” molte delle funzioni delle banche centrali nazionali – ha interrotto questa spirale demenziale (meno spesa che produce più debito). Anzi, la logica dell’austerità l’ha aggravata, anche perché – come giustamente rileva Salerno Aletta – i vari paesi europei erano e sono ancora molto diversi tra loro. E non si può mettere una disciplina unica a regolare soggetti diversi.

E’ come mettere l’asticella del salto a due metri e pretendere che dei bambini gareggino con gli adulti, o che degli adulti allenati “competano” con quelli che non sono mai saliti su una pedana di salto…

Le crisi a frequenza crescente che hanno scosso l’edificio dei mercati finanziari internazionali hanno poi costretto le banche centrali (sia europea che Usa) a “politiche non convenzionali” neanche previste dal loro impianto teorico (“toppe”, insomma), a dei “whatevere it takes” che sono sembrati geniali solo perché congelavano la crisi contingente, mentre alimentavano quell’eccesso di liquidità che ora ci ritroviamo come inflazione galoppante.

Per il buon motivo che la finanza creativa agisce come la matematica, una logica con cui si può fare di tutto, creando mondi virtuali e spazi a n-dimensioni. Poi arriva una crisi che ha fondamenti fisici (gas, petrolio, grano, fertilizzanti, semiconduttori, ecc), e straccia tutti gli algoritmi disegnati per regolare dinamiche solo virtuali (con effetti concreti, però).

Qui siamo ora. E lasciamo volentieri la parola allo specialista…

Buona lettura.

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Bce, tutto da riformare

Come tutte le istituzioni, anche le Banche centrali conoscono evoluzioni che riflettono l’ambiente circostante: il rafforzamento della loro autonomia dai governi, fino al divieto di finanziare in qualsiasi modo gli Stati che è stato inserito nei Trattati europei sin da Maastricht, fu un presidio posto a garanzia del risparmio, tosato negli anni Sessanta e Settanta dall’inflazione e da tassi reali negativi.

Gli Stati, anche in Italia, avevano il privilegio del finanziamento monetario dei loro fabbisogni: le banche centrali si sentivano comunque tenute a sottoscrivere i titoli del debito pubblico che rimanevano inoptati alle aste, immettendo nuova liquidità nell’economia attraverso il “canale del Tesoro”.

Anche i tassi ufficiali di sconto, così come i rendimenti delle emissioni venivano stabiliti dai Ministri del Tesoro: la politica monetaria la facevano gli Stati. Le Banche centrali, intese Banche delle banche, erano prestatrici dell’ultima istanza del sistema bancario che faceva capo a loro, che era basato esclusivamente sul credito erogato alle imprese ed alle famiglie, ed erano unicamente responsabili della vigilanza prudenziale sulla loro attività.

Il privilegio delle emissioni del debito pubblico, garantito dalla copertura monetaria degli acquisti effettuati dalle Banche centrali, spiazzava l’erogazione del credito ai privati: per contenere l’inflazione, determinata dai deficit pubblici che venivano finanziati con la nuova moneta immessa dalle Banche centrali al momento in cui ne acquistavano i titoli, si doveva razionare la liquidità immessa attraverso il canale bancario.

La neutralità delle Banche centrali nei confronti degli Stati, che da quel momento in poi dovevano finanziarsi sul mercato senza più questo privilegio, ebbe invece come paradossale conseguenza l’aumento dei debiti pubblici: gli Stati si finanziavano ai tassi correnti, ma venivano considerati prenditori più affidabili delle imprese private, e quindi continuavano a fare deficit appesantendo i bilanci con maggiori oneri per interessi. Per tutti gli anni Ottanta, in Europa andò così.

Per evitare questa deriva, nel Trattato di Maastricht fu inserito un tetto al deficit pubblico al 3% del PIL, e l’obiettivo di un rapporto debito/PIL del 60%.

Mentre il problema dell’inflazione fu contenuto, se ne creò un altro: gli squilibri dei conti commerciali tra i diversi Stati non venivano più rilevati in quanto l’introduzione dell’euro a partire dal 2001 non rendeva esplicite le tensioni sul mercato dei cambi che caratterizzavano il sistema di relazioni basato sulle valute nazionali.

La BCE non ha minimamente monitorato questi squilibri: erano solo gli Stati da mettere in “manette”. Il mercato si sarebbe autoregolato: certo, ma solo quando gli squilibri sarebbero divenuti insostenibili, attraverso crisi devastanti.

Paesi come la Grecia si indebitavano all’estero vorticosamente, finanziate dai Paesi con cui avevano il deficit commerciale e finanziario: pagavano ricchi interessi su questi prestiti, fino al default. Le banche spagnole si facevano prestare fondi da quelle tedesche e francesi per investimenti immobiliari colossali, finché non scoppiò la bolla che fece fallire le banche spagnole. Eppure, lo Stato spagnolo aveva un debito irrisorio, che arrivava appena al 30% del PIL: gli squilibri si erano solo spostati.

Come se non bastasse, le banche tedesche avevano investito i loro attivi in titoli americani che avevano come sottostante mutui immobiliari: le tristemente note Mortgage Asset Security’s. Le rate dei mutui erogati a prenditori a basso rating, e che per questo garantivano rendimenti particolarmente convenienti, non vennero più onorate, causando un default catastrofico.

La Grande Crisi Finanziaria americana si ripercosse su tutte le economie europee: non solo sulle banche dei Paesi che avevano investito in mutui subprime americani, ma sui titoli di Stati dei Paesi periferici, i tanto vituperati PIIGS.

Gli interventi correttivi sono stati simmetrici, e per questo assolutamente sbagliati.

Il Fiscal Compact ha dettato una disciplina identica a tutti i Paesi, il pareggio strutturale di bilancio, mentre avrebbe dovuto essere costrittiva per alcuni ed espansiva per altri: l’Europa si è accasciata sotto la scure della austerità e del rigore.

Il Qe deciso dalla BCE a partire dal 2013 ha dato seguito all’acquisto indiscriminato dei titoli di Stato emessi da tutti i Paesi, anche di quelli che non avevano assolutamente bisogno di sostegno per evitare tassi eccessivamente elevati. I rendimenti sono precipitati a livelli nominali negativi, che hanno devastato i conti di banche, assicurazioni, Fondi di investimento. Invece di tagliare i picchi insostenibili, è stato sfondato il pavimento di quelli più solidi.

Rendimenti nominali negativi sono inaccettabili: la BCE ha taglieggiato i risparmiatori e gli investitori.

Dopo la crisi sanitaria del 2020, gli interventi sono ripresi automaticamente: nuovo Qe, denominato PEPP, con i tassi di riferimento sempre a zero.

La fiammata inflazionistica, determinata dall’aumento dei prezzi internazionali all’importazione, è stata affrontata dalla BCE come una inflazione da domanda: gli spread tra i titoli pubblici si sono riaperti, mentre le Borse cedono. E, nel frattempo, il cambio dell’euro sul dollaro è precipitato verso la parità, accelerando la dinamica dell’inflazione importata.

Servono correzioni significative:

  • per evitare squilibri strutturali nei conti esteri;

  • per evitare che gli impieghi bancari vengano destinati ad impieghi finanziari, soprattutto all’estero, anziché al credito all’economia;

  • per evitare che, pur rispettando gli obblighi del Fiscal Compact, gli Stati accedano al mercato a condizioni troppo diverse. Nel caso dell’Italia, è solo ed esclusivamente il maggior costo degli interessi che fa aumentare il debito pubblico senza rimedio;

  • per evitare di taglieggiare il risparmio e gli investimenti, che si dirottano verso altri asset finanziari ed immobiliari provocando bolle micidiali.


La stabilità stessa della Eurozona è nuovamente a rischio.

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