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Germania forte, Europa periferica debole

L’analisi di Lucrezia Reichlin è assolutamente avalutativa, ma precisa: a Berlino conviene che il resto d’Europa sia debole e gerachicamente sottomessa alle sue esigenze produttive e di export.

Non è un’analisi “pro-nazionalismo”, perché individuare un “interesse nazionale” prevalente su pretese asettiche “regole della buona gestione economica” non significa affatto sposare un angolo visuale “nazionalistico”. Solo un malato di ideologia può non distinguere l’albero dalla foresta, o un gruppo specifico di capitali dal “capitale”.

 

Perché a Berlino conviene una debole periferia d’Europa

Lucrezia Reichlin

Le nuove regole di bilancio europee, il cosiddetto fiscal compact , sono state volute soprattutto da Berlino. L’importanza che la Germania attribuisce all’accordo appena raggiunto non è il risultato di un’analisi sbagliata, come spesso afferma la stampa anglosassone, ma è coerente con i suoi interessi strategici come potenza economica globale.

Secondo i critici del fiscal compact, le nuove regole sono sbagliate perché ispirate da una cattiva diagnosi, quella secondo cui la crisi dell’euro sarebbe dovuta a una mancanza di disciplina di bilancio quando, invece, il vero problema sarebbe lo squilibrio della bilancia commerciale all’interno della zona euro che vede Germania e periferia come immagini riflesse in uno specchio: in sistematico surplus la prima e in sistematico deficit la seconda. Questo squilibro, secondo le analisi più ascoltate, sarebbe causato da una minore competitività del Sud dell’Europa e da una domanda di consumi e investimenti troppo debole in Germania. Sono quindi questi i problemi che andrebbero affrontati con nuove regole comuni. Di conseguenza, la ricetta dovrebbe prevedere non, o almeno non esclusivamente, il rigore di bilancio ma, nella periferia, la prescrizione di riforme strutturali volte all’aumento della produttività accompagnata dalla moderazione salariale e, in Germania, il rilancio della domanda per i consumi. La correzione dello squilibrio che ne deriverebbe sarebbe nell’interesse della stabilità dell’euro e quindi sia del Nord che del Sud dell’Unione.

Se guardiamo ai numeri, tuttavia, la storia appare più complessa e suggerisce piuttosto un’altra interpretazione: gli interessi economici della Germania sono sempre più diversi da quelli del resto dell’Europa. La chiave per capirlo è pensare all’area euro non come a un’economia chiusa agli scambi intra Unione, ma come a un’economia aperta al commercio con il resto del mondo.

Ricordiamo qualche fatto. Il primo è che per la Germania solo il 40% delle esportazioni sono verso l’area dell’euro e, dal 1999, il suo surplus commerciale si è accresciuto soprattutto grazie all’export verso i Paesi extra Unione: Cina, Paesi del Centro ed Est Europa e Paesi produttori di petrolio. Secondo, la perdita di competitività di Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna (i cosiddetti Giips) rispetto al resto del mondo è dovuta soprattutto all’apprezzamento del tasso di cambio nominale più che alla dinamica dei prezzi. Terzo, dal 1999, il deficit commerciale di questi Paesi si è accresciuto soprattutto nei confronti dei Paesi fuori dall’area euro.

Questi dati suggeriscono che il problema dell’instabilità dell’euro non sia dovuto agli squilibri interni, ma ad una diversa capacità dei Paesi dell’Unione di competere nel mondo. Ma come saranno quindi gli equilibri che si delineeranno nella nuova Europa del fiscal compact? Se con le regole di bilancio e l’aggressivo ruolo della Banca centrale europea sul piano della liquidità si scongiurerà una crisi finanziaria, si può prefigurare una Germania esportatrice sempre più proiettata verso il mondo esterno all’euro e che beneficerà di un tasso di cambio nominale più basso che nel decennio passato. Allo stesso tempo, i Giips saranno condannati ad un tasso di crescita anemico dovuto al drastico aggiustamento di bilancio imposto dalle nuove regole del fiscal compact , ma la minore domanda di importazioni che deriverà dalla contrazione dei consumi che ne consegue non peserà necessariamente sull’export tedesco poiché la Germania è sempre meno dipendente dal mercato dell’Unione. Quella che si prospetta è dunque un Europa sempre più eterogenea al suo interno, con interessi economici e politici potenzialmente divergenti.

Naturalmente i Giips potrebbero anch’essi beneficiare della svalutazione dell’euro, ma per competere sul mercato globale questi Paesi dovrebbero fare anche un salto di competitività, sviluppo tecnologico, aumento della dimensione di impresa. Solo questo li aiuterebbe a recuperare quote di export a scapito di Paesi che tradizionalmente hanno reddito pro capite più basso e quindi anche più basso costo del lavoro. Questo dovrebbe avvenire attraverso politiche nazionali ma anche europee: politiche ambiziose per la crescita e l’innovazione. Ma queste ultime non sono di grande interesse per la Germania, poiché essa trae vantaggi da una periferia dell’euro debole purché naturalmente ne venga preservata la stabilità finanziaria.

Questa è una delle tante ragioni per cui l’Europa deve uscire dalla logica intergovernamentale, che vede il dominio del punto di vista tedesco. Per tornare a pensarsi insieme in negoziati multilaterali. Con incentivi diversi tra Stati membri è difficile immaginare come questo possa accadere.

dal Corriere della Sera

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1 Commento


  • pietro gori

    no, compagni, non ci siamo proprio.

    l’analisi di lucrezia è completamente sbagliata, perché ignora i dati. senza la zona euro che compra le sue merci , la germania va in panne. il surplus con la cina e l’estasiatico è solo un sogno, destinato a restare tale.

    stanno segando il ramo su cui stanno seduti. abbiamo un complesso di inferiorità così forte nei confronti dei crucchi che chiudiamo gli occhi di fronte all’evidenza

    se pensate che i kamerati non possano essere tanto idioti, mi sa che vi siete persi il ‘900.

    se non salta l’euro, dovranno tornare i partigiani

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