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La Fed statunitense gela le chiacchiere sulla crescita

Era atteso, c’era chi sperava in un ripensamento a proposito della “stretta” monetaria, ma Jerome Powell ha mostrato i denti spiegando che La nostra responsabilità di garantire la stabilità dei prezzi è incondizionata“.

E dunque il prossimo aumento dei tassi di interesse sarà dello 0,75%, nonostante uno dei dati statistici privilegiati dalla Federal Reserve – l‘indice dei prezzi delle spese per i consumi personali – sia cresciuto meno delle attese e dei precedenti (6,3% anziché 6.8).

La reazione delle borse è stata ovviamente immediata, con una caduta generalizzata tra Stati Uniti ed Europa in genere superiore al 2%.

Non che un aumento dello 0,50% avrebbe granché cambiato la realtà operativa di quanti – imprese e famiglie – hanno necessità di ricorrere a dei prestiti, ma è l’idea strategica enunciata da Powell a spaventare i soggetti dell’economia reale ed ora anche quelli della finanza speculativa.

Il suo messaggio è stato in questo senso chiarissimo: la banca centrale è inequivocabilmente impegnata in una politica più restrittiva al fine di contenere l’inflazione. Anche se è perfettamente consapevole che Se da un lato l’aumento dei tassi d’interesse, il rallentamento della crescita e le condizioni più morbide del mercato del lavoro faranno scendere l’inflazione, dall’altro comporteranno un certo dolore per le famiglie e le imprese“.

L‘aumento della disoccupazione e delle tensioni finanziarie che una politica più restrittiva inevitabilmente comporterà per le case e le imprese americane è visto dal vertice della Fed come un “danno minore”, ma inevitabile.

Questi sono gli sfortunati costi della riduzione dell’inflazione. Ma un fallimento nel ripristinare la stabilità dei prezzi significherebbe un dolore ben più grande“, ha detto, ricordando le lezioni che i funzionari hanno imparato studiando la lotta della Fed per combattere l’alta inflazione negli anni Settanta e Ottanta.

Più a lungo si protrae l’attuale fase di alta inflazione, maggiore è la possibilità che le aspettative di un’inflazione più elevata si radichino“.

Il problema è che l’inflazione attuale non è della stessa natura di quella, a lungo elevatissima – negli anni ‘70 e ‘80. Allora l’economia mondiale era quasi esclusivamente monopolizzata dall’Occidente (Europa – l’Unione Europea era ancora solo un progetto – e Stati Uniti. E gli improvvisi aumenti del prezzo del petrolio – in seguito alla guerra tra Israele, Siria ed Egitto – si sommavano ai consistenti aumenti salariali strappati dal più potente ciclo di lotte del dopoguerra.

Si veniva, tra l’altro, da un ventennio di crescita robusta, di espansione continua della produzione e dei consumi.

Oggi siamo praticamente all’opposto. Da 15 anni a questa parte la crescita “euro-atlantica” è fiacchissima, tanto da far diventare popolari definizioni come quella di “stagnazione secolare”. In questi 15 anni quel poco di dinamica economica occidentale è stata finanziata a debito, grazie a un costo del denaro ridotto a zero (o sottozero) dalle politiche di quantitative easing decise dalle principali banche centrali per impedire il tracollo dei mercati finanziari.

Quelle “iniezioni di liquidità” – un “socialismo per ricchi”. Lo definì Joseph Stiglitz, ex presidente dalla Banca Mondiale – presentano ora il conto in modo imprevisto, come esplosione dei prezzi delle principali materie prime energetiche.

Nei soli Stati Uniti – non certo in Europa e ancor meno in Italia – i salari reali sono cresciuti in misura modesta. Dunque il motore principale dell’inflazione è pressoché indifferente all’aumento o alla diminuzione dei tassi di interesse (il principale strumento istituzionale, “ortodosso”, in mano ad una banca centrale).

Il che rende la politica monetaria aggressiva proposta dalla Fed probabilmente fuori bersaglio. Lo capiremo meglio tra alcuni mesi…

Al momento l’unico effetto concreto di questi aumenti (tra già decisi e programmati) è quello di gelare l’espansione economica già stretta fra conseguenze di oltre due anni di pandemia ed effetti sistemici della guerra in Ucraina. Oltre, non secondariamente, quello di incentivare la fuga di capitali in direzione degli Stati Uniti, come avveniva ai tempi di Ronald Reagan..

Il che – oltre a gelare in parte le speranze europee di recuperare i livelli ante-pandemia – sbilancia pesantemente i già fallimentari rapporti di forza tra UE e Usa, sovradeterminati ormai dall’iniziativa militare e dall’obbligo di applicare sanzioni alla Russia (che danneggiano solo i paesi europei, non gli Stati Uniti).

Ma il convitato di pietra di questa quadro mondiale è la presenza rilevante – oggi – della Cina. Ossia un paese che negli anni ‘70 faceva parte del “campo socialista” e comunque aveva un peso quasi irrilevante nell’economia globale.

Oggi quel paese ha già superato gli Stati Uniti per prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto, e punta a superarlo anche in termini assoluti nel giro di qualche anno.

Un paese il cui modello economico ricorda alla lontana l’”economia mista” dell’Italia del boom economico, ma con un deciso sovrappiù in termini di programmazione centralizzata e pianificazione (sia degli investimenti che delle politiche salariali, in costante crescita).

La sola presenza di questo “diverso protagonista” spiazza decisamente – anche sul piano della teoria monetarista classica dominante dalla fine degli anni ‘70 – le scelte strategiche della Federal Reserve (e della Bce).

Specie perché le sue scelte di politica monetaria vanno sempre in direzione diversa – se non opposta – da quelle elaborate dagli “euro-atlantici”. Per esempio, non hanno fatto alcun quantitative easing durante gli ultimi 15 anni, ma solo investimenti, riduzione di tasse, incentivazione dei salari e dunque dei consumi. Ed oggi, mentre la Fed “stringe”, la Pboc (banca centrale di Pechino) può decidere di abbassare tassi di interesse e favorire, ancora una volta, l’economia reale invece che la finanza speculativa.

Una condizione che viene analizzata con qualche comprensibile compiacimento in questo articolo di Zhou Lanxu (China Daily), che qui di seguito vi proponiamo nella traduzione fatta dal blog Pianocontromercato, di Pasquale Cicalese.

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La Fed frustrata dalla politica monetaria cinese: divergenze e prospettive

Zhou Lanxu

Se dovessi scegliere l’argomento macroeconomico più interessante di quest’anno, la mia prima scelta sarebbe la divergenza tra le politiche monetarie delle due maggiori economie mondiali.

La Federal Reserve statunitense ha alzato i tassi di interesse di ben 225 punti base da marzo per frenare l’inflazione galoppante che si aggira intorno ai massimi da 40 anni.

Al contrario, la People’s Bank of China, la banca centrale del paese, ha mantenuto una posizione accomodante, con l’ampia offerta di moneta del paese, o M2, in aumento del 12% su base annua rispetto alla fine di luglio.

La divergenza è diventata più netta la scorsa settimana, quando la PBOC ha tagliato un tasso di riferimento chiave per sostenere la ripresa economica.

La PBOC ha iniettato 400 miliardi di yuan (58,89 miliardi di dollari) in operazioni di prestito a medio termine il 15 agosto a un tasso di interesse del 2,75 per cento, in calo rispetto al 2,85 per cento del mese prima.

Secondo un rapporto di Sealand Securities, il taglio dei tassi non solo ha sorpreso la maggior parte dei partecipanti al mercato, ma ha segnato il primo taglio in assoluto dei tassi ufficiali della PBOC durante i cicli di rialzo dei tassi della Fed.

La teoria e la pratica hanno dimostrato che gli aumenti dei tassi della Fed possono restringere la liquidità globale e accumulare le pressioni del deflusso di capitali e del deprezzamento della valuta sui mercati emergenti, impedendo loro un allentamento monetario, che potrebbe intensificare tali pressioni.

Quindi, come mai la PBOC ha scelto il taglio dei tassi apparentemente rischioso in un momento in cui la Fed è nel suo ciclo di rialzo dei tassi più aggressivo degli ultimi decenni?

Innanzitutto, una crescita economica stabile funge da fondamentale supporto per la stabilità dei flussi di capitali transfrontalieri, dato che i rendimenti degli asset a medio e lungo termine dipendono ancora dalle prospettive di sviluppo economico.

Questa logica trova prove nel mercato cinese delle azioni

A. I dati compilati da China International Capital Corp, o CICC, hanno mostrato che il commercio in direzione nord dei programmi di connessione tra la terraferma e le borse di Hong Kong, ha visto afflussi netti di capitali per quasi 80 miliardi di yuan a giugno, la cifra più alta finora quest’anno.

Gli analisti del CICC hanno attribuito l’aumento degli afflussi alla fiducia del mercato nella ripresa economica della Cina, rafforzata dalla riduzione del tasso di riferimento del prestito superiore a cinque anni a maggio, un benchmark guidato dal mercato su cui i finanziatori basano i loro tassi ipotecari.

In secondo luogo, poiché la capacità di approvvigionamento costante della Cina si distingue in una catena industriale globale in frantumi e soddisfa la domanda globale di beni, il suo forte surplus commerciale ha sostenuto il tasso di cambio dello yuan e compensato la pressione dei deflussi di capitali.

L’eccedenza commerciale cinese di merci è aumentata del 36% su base annua a 320,7 miliardi di dollari nel primo semestre, la lettura più alta mai registrata per lo stesso periodo, ha affermato l’Amministrazione statale dei cambi.

In effetti, il tasso di cambio onshore dello yuan rispetto al dollaro si è indebolito a circa 6,79, martedì, in seguito al taglio dei tassi, ma ha guadagnato una posizione più solida mercoledì intorno a 6,77, continuando a funzionare entro un intervallo ragionevole.

Le possibili giustificazioni di cui sopra per il taglio dei tassi della PBOC non solo alimentano la curiosità, ma possono fornire indizi sulla definizione delle politiche della banca centrale nel resto dell’anno.

La pressione imposta dall’inasprimento della Fed potrebbe non fermare le mosse di allentamento della PBOC fintanto che i dati economici interni indicano la necessità di un maggiore sostegno, mentre i pagamenti internazionali del paese rimangono generalmente stabili.

Ciò potrebbe essere particolarmente vero in quanto la Fed potrebbe rallentare i rialzi dei tassi con la pressione inflazionistica statunitense che ha mostrato segni di attenuazione a luglio.

Come ha affermato la PBOC nel suo rapporto sulla politica monetaria del secondo trimestre, continuerà a considerare i fattori interni come dominanti nella definizione delle politiche, tenendo d’occhio gli effetti di ricaduta della situazione economica e gli aggiustamenti della politica monetaria nelle economie sviluppate.

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