Vi è un diffuso consenso fra i partiti politici sulla necessità di ridurre il cuneo fiscale per rilanciare la crescita economica in Italia. La proposta è stata lanciata qualche mese fa da Confindustria e gode di un ampio credito, da Fratelli d’Italia al PD. Vediamo di cosa si tratta.
Il cuneo fiscale è la differenza fra il salario lordo pagato dal datore di lavoro e il salario netto percepito dal lavoratore. Secondo gli ultimi dati OCSE (si vedano i rapporti periodici Taxing wages), in Italia, il peso della tassazione sul lavoro è notevolmente elevato, pari a circa il 47.9% dello stipendio.
Il cuneo fiscale è la somma di due componenti principali: l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e i contributi previdenziali.
Il dipendente paga l’imposta e parte dei contributi, il datore di lavoro si fa carico della restante parte dei contributi previdenziali. La parte quantitativamente più consistente della differenza fra salario lordo e salario netto riguarda le aliquote INPS.
La ripartizione del cuneo è pari al 16% di imposte, 7% dei contributi dei lavoratori, 24% di contributi dei datori di lavoro. Il cuneo fiscale viene quantificato sulla base della normativa fiscale e previdenziale vigente e applicata sulla retribuzione media.
Nell’opporsi fermamente all’istituzione del salario minimo, Confindustria, da mesi, propone un abbattimento del cuneo fiscale, che avrebbe, a suo avviso, il duplice vantaggio di rilanciare la domanda interna, per effetto dell’aumento dei salari netti, e di stimolare la competitività delle imprese italiane, per effetto della compressione dei costi.
Confindustria ne propone una riduzione di notevole entità (un “taglio shock” per Enrico Letta), per un ammontare pari a 16 miliardi di euro con una distribuzione di due terzi a vantaggio del lavoratore e di un terzo a favore dell’impresa.
Secondo le stime dell’associazione degli imprenditori, le retribuzioni fino a 35.000 euro aumenterebbero di oltre 1200 euro, con un incremento pari a una mensilità all’anno a beneficio di circa 15 milioni di lavoratori dipendenti.
Vi sono solide ragioni per nutrire dubbi sulle proprietà salvifiche di questa misura. Vediamole.
1) Va innanzitutto precisato che la riduzione del cuneo fiscale è stata un cavallo di battaglia di numerosi governi nei tempi più recenti, e che è stata almeno parzialmente realizzata, in particolare, dal secondo Governo Prodi (per un importo di circa 3 miliardi di euro a carico delle finanze pubbliche nel solo 2007). Il Governo Renzi ha poi provato a realizzare una misura analoga.
In più, a partire dal 2000, il cuneo fiscale si è progressivamente ridotto, senza effetti apprezzabili né sui consumi, né sulla competitività internazionale delle nostre imprese. Non esiste alcuna evidenza robusta che provi il fatto che al ridursi del cuneo fiscale si registri un aumento della domanda interna e neppure che la sua compressione stimoli le esportazioni.
2) Pur a fronte della tesi reiterata dai nostri imprenditori, va precisato che l’Italia non ha un cuneo fiscale esageratamente alto nel confronto con altri Paesi OCSE. L’Italia ha un cuneo fiscale pressoché uguale a quello di Francia e Germania (essendo addirittura leggermente inferiore a quest’ultimo e a quello belga), Paesi che hanno una struttura del welfare simile alla nostra. Il cuneo fiscale è sì inferiore nel mondo anglosassone, ma va precisato che lì i lavoratori devono attingere ai loro stipendi per acquistare sul mercato prestazioni sociali che lo Stato non garantisce.
La manovra ipotizzata da Confindustria, alla quale il Governo sta lavorando con appoggio unanime in Parlamento, è stimata pari a 40 mld di minori entrate.
La domanda sulla quale occorrerebbe richiamare l’attenzione è: chi paga, in ultima analisi, l’aumento dei costi a carico delle finanze pubbliche derivanti dalla riduzione del cuneo?
In linea generale, è buona norma, in politica economica, diffidare da proposte di provvedimenti che promettono di avvantaggiare tutti. Il progetto confindustriale ha il suo innegabile appeal nel fatto di essere immediatamente comprensibile – anche ai non addetti ai lavori – e di presentarsi come appunto benefico per ogni gruppo sociale.
È intenzione del Governo evitare il ricorso a uno scostamento di bilancio. Da cui, delle due l’una: o il provvedimento viene finanziato con minore spesa o con maggiori entrate. In entrambi i casi, in via diretta o indiretta, sorge il sospetto che a pagare sarebbero i beneficiari stessi della riduzione del cuneo fiscale, ovvero i lavoratori dipendenti. Ecco perché.
Se la misura è finanziata con nuove entrate, occorre tener conto di questo dato di fatto. Secondo i dati del Dipartimento delle Finanze, oltre l’80% del totale del gettito IRPEF, nell’ultimo anno fiscale censito, è pagato da lavoratori dipendenti e pensionati.
Pagano anche le piccole imprese, mentre quelle di grandi dimensioni, soprattutto se mobili su scala internazionale, contribuiscono poco all’Erario.
La Cgia di Mestre stima un carico fiscale complessivo per le piccole e medie imprese di circa il 60% dei profitti, a fronte del solo 33% dei profitti per le imprese di grandi dimensioni e spiega questa differenza con la possibilità – per queste ultime – di pagare tasse in Paesi con fiscalità agevolata.
Il fisco italiano è dunque già fortemente sbilanciato a danno del lavoro e la riforma fiscale in atto – con la riduzione del numero delle aliquote – non fa che accentuarne il profilo redistributivo a danno dei lavoratori dipendenti. È utile, a riguardo, ricordare che l’Italia ha la più bassa incidenza del reddito da lavoro dipendente sul Pil in Europa.
Se la misura è finanziata con minore spesa, i lavoratori dipendenti la pagano con minore welfare. Fratelli d’Italia è l’unica forza politica (tra quelle presenti in Parlamento, ndr) che fa un’operazione verità mettendo a nudo il non detto del Governo. Per questo Fratelli d’Italia chiede il ridimensionamento delle spese destinate al reddito di cittadinanza (ritenuto, a torto, una spesa improduttiva) per finanziare l’abbattimento del cuneo fiscale.
Dunque, per i lavoratori nel loro complesso, il taglio del cuneo fiscale potrebbe non essere un vantaggio. Alcuni fra loro si giovano nell’immediato di uno sconto fiscale, mentre come gruppo tutti sembrano pagarla con minori servizi o con più tasse: i giovani precari e i disoccupati, fra tutti, non traggono ovviamente nessun beneficio da questa manovra.
Se ne avvantaggiano le imprese, che non a caso, tramite Confindustria, insistono sugli illusori benefici universali del provvedimento. E lo fanno in una condizione di ripresa della crisi e di timore di compressione dei loro margini di profitto.
* da “Nuovo Quotidiano di Puglia”, 30 agosto 2022
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