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Il capitalismo autodistruttivo alla prova del gas

Sull’impazzimento del prezzo del metano consigliamo ancora una volta la lettura attenta dell’editoriale di Guido Salerno Aletta, pubblicato da TeleBorsa, e che vi abbiamo proposto già un paio di giorni fa.

Lì viene infatti “svelato” il meccanismo assurdo che trasforma un “prezzo marginale” – il più alto registrato per una singola compravendita, magari su un quantitativo limitatissimo – nel “prezzo universale” per tutte le transazioni di quella giornata. Anche per quelle che magari si erano chiuse alla metà…

Ma non basta neanche questo a rendere comprensibile perché il prezzo sia impazzito e chi ci guadagna.

Il secondo meccanismo che inchioda il prezzo dell’energia elettrica a quello del gas è una decisione – un atto politico, ossia una convenzione formale, non una “legge naturale” – che appariva ai tempi persino intelligente: tra i differenti costi di produzione dell’energia elettrica a seconda del “motore” utilizzato (dighe, centrali nucleari, eolico, fotovoltaico, centrali a carbone oppure a gasolio oppure a gas, ecc) il costo dell’energia elettrica in bolletta “per l’utente finale” veniva ancorato a quello del gas, che allora era il più basso.

Con un modesto sovraprezzo si realizzava anche il margine che consentiva di compensare metodologie più costose, altrimenti strutturalmente in perdita e dunque fuori mercato.

Ma “fatta la legge, trovato l’inganno”. La speculazione finanziaria, da anni alla ricerca di campi di investimento più redditizi della borsa o dei titoli di stato (il quantitative easing generalizzato in Occidente, aveva reso addirittura negativo il costo del denaro e dunque dell’attività di prestito), lo ha infine trovato proprio nelle materia prime. E soprattutto in quelle energetiche, sollecitate dalle tensioni internazionali e infine dalla guerra in Ucraina.

Tra le munizioni che poteva utilizzare la speculazione aveva fra l’altro proprio la massa sconcertante di liquidità immessa sui mercati dalle banche centrali, per oltre un decennio, allo scopo – “virtuoso” – di impedire l’esplosione del sistema finanziario internazionale.

Ma anche questo non sarebbe bastato. I contratti di fornitura del gas si firmano nella realtà mesi prima (o addirittura anni) della consegna fisica. Il che è perfettamente logico visto che il gas bisogna estrarlo, immetterlo nelle pipeline che lo portano ai clienti. Oppure bisogna liquefarlo per caricarlo su navi gasiere appositamente costruite, che ci mettono poi settimane per arrivare a destinazione. Lì poi va “rigassificato” – ossia portato dallo stato liquido a quello gassoso – e immesso nella rete di distribuzione.

Il gas meno caro è certamente quello che arriva via terra, nei gasdotti. Ed è anche quello quantitativamente più importante, visto che le navi gasiere non sono moltissime e necessariamente non possono portare gli stessi quantitativi.

Ma la combinazione tra guerra, sanzioni alla Russia e prezzo agganciato al contratto più alto hanno creato l’ambito perfetto per la speculazione finanziaria.

I governi sono stati costretti – o si sono autoimposti, per obbedire alla Nato e agli Usa – di ridurre le forniture dalla Russia (per l’Italia oltre il 40% del fabbisogno, per la Germania anche di più). Ma in questo modo le forniture “via tubo” si riducevano a quelle da Algeria e Libia (dove pure non mancano i problemi di controllo delle esportazioni).

Una strozzatura rispetto alle fonti di rifornimento che ha reso i contratti “marginali” – quelli sul trasportato dalle navi gasiere – il prezzo di riferimento per tutto il metano che gira per il mondo (occidentale, va ricordato; non tutti sono stati così scemi da obbedire a Washington).

E a quel punto il gioco è facilissimo. Un aumento violento del prezzo si ottiene spostando il punto di arrivo di una nave gasiera qualsiasi in base ad un’offerta – appunto – “marginale”. E quel prezzo diventa il metro di misura di tutto il resto.

Qualcuno dirà: ma così si distrugge l’economia reale di tutto l’Occidente… Dove si esercita l’autorità degli Stati?

Beh, nel neoliberismo imperante da quasi 40 anni il potere si è decisamente spostato dagli Stati-nazione alle grandi multinazionali. Se uno Stato si lamenta del prezzo troppo alto, la multinazionale fornitrice non fa altro che indirizzare la nave – anche mentre è in viaggio – verso un altro paese. E si troverà sempre, in un mercato attraversato da una “scarsità indotta” (non dovuta insomma alla mancanza nella materia prima fisica), qualcuno disposto od obbligato ad offrire un prezzo più alto.

Spingendo sempre più su il prezzo di tutto il gas, per il meccanismo della “borsa di Rotterdam”.

Si dice: ma qui le imprese saranno costrette a chiudere per l bollette troppo alte, ed anche le famiglie dovranno scegliere se accendere la luce o riscaldarsi oppure mangiare…

E che gliene frega alle imprese dell’energia? Sono imprese anche loro, certo, e ragionano esattamente come tutte le altre: badano al proprio profitto, anche al prezzo di far fallire dei “colleghi” che ricavano il proprio da un altro business.

Questo è il capitalismo. Per questo o non funziona o il suo funzionamento è distruttivo. E in certi casi persino auto-distruttivo… Per questo l’ipotesi di un price cap, fondato sul “potere dei (Paesi) consumatori” – il coniglio tirato fuori dal cappello da Mario Draghi – o non sta in piedi o richiederà un tempo di realizzazione più lungo della guerra in corso.

Ma anche questa ideuzza, involontariamente, è a sua volta un sintomo della necessità di uscire il più presto possibile dalla gabbia (anche mentale) del “ci pensa il mercato”…

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